La coscienza è in realtà la controparte del
Dio-Uno, in cui tutto è indifferenziato, dove non c’è distinzione fra giorno e
notte, bene e male, guerra e pace, giusto e ingiusto, vita e morte, ecc. È con
la differenziazione dell’Uno e l’emergere della coscienza che nasce la
distinzione e quindi la lacerazione.
La coscienza resta sempre lacerata e quindi
sofferente. Questo è il destino dell’uomo e la sua gloria.
L’uomo porta sulle sue spalle il peso della
coscienza, e il suo sacrificio consiste nel sopportarne il dolore.
L’Uno resta l’indistinto, l’indifferenziato,
che tende in ogni momento a riportare tutto a sé. Eliminando le differenze.
L’uomo è l’onda consapevole del mare dell’evoluzione.
Egli tenta di placare la Voragine-che-tutto-inghiotte offrendole sacrifici. Ma
può solo dilazionare – perché alla fine sarà sacrificato.
Anche nel mito cristiano del Figlio divino troviamo
il riconoscimento che “farsi uomo”, che staccarsi dal Padre-Uno, che
differenziarsi, porta con sé una grande dose di sofferenza, inevitabile
d’altronde in un atto di distacco, di abbandono, di differenziazione. La
sofferenza, la passione, il patire, non può non accompagnare chi cerca la
propria autorealizzazione, chi cerca di uscire dal guscio protettivo ma
soffocante del Padre, chi cerca la via dell’individuazione, per staccarsi
dall’indifferenza e dall’indifferenziato, dall’indistinto, dall’anonimo, chi
cerca la propria autonomia.
Il destino dell’uomo è dunque la dolorosa
lacerazione, che prosegue comunque il disegno dell’evoluzione.
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