Come tutti i malati di mente, l’uomo non
sospetta la propria malattia. Oggi, la mente non impone più il proprio dominio
attraverso la repressione sessuale, ma attraverso l’impoverimento di senso. È
il conformismo che erige muri invalicabili intorno all’individuo, il quale non
ha nemmeno più le parole per aspirare a qualcosa di più. Ogni termine, infatti,
è stato univocamente e nettamente definito, in modo che la mente non possa che
tendere alle soluzioni duali (o/o) fornitele dal linguaggio.
Così la persona alienata dal lavoro e dalla
famiglia sogna un’evasione nei termini che le sono consentiti dal linguaggio
della pubblicità, della televisione e dei mass media. Sogna per esempio la casa
in campagna o l’isola del Pacifico, dove però riprodurrebbe lo stesso tipo di
esistenza insulsa, la stessa insoddisfazione. Non ha la possibilità di
inventarsi niente di diverso: o… o… I viaggi, le vacanze, le seconde case, le
ricchezze, i matrimoni fastosi, il potere… tutto ciò che sogna è già
precostituito. Anche Dio, anche l’aldilà, sono già preconfezionati con le stesse limitazioni di
senso.
L’uomo non riesce ad avvicinarsi a Dio in
termini di vera trascendenza: è costretto a percorrere vie già aperte per lui
da millenni di storia, di cultura, di religione. Il Dio che crede di pensare è
già stato pre-pensato per lui dalle grandi religioni, così come la prassi religiosa:
peccati, pentimenti, espiazioni, conversioni, ricompense, punizioni…
Solo se si decondiziona, l’uomo può riuscire a
dare un nuovo senso alle cose. Solo se si libera dalla prigionia del linguaggio
comune.
E in che modo può farlo se non formulando continuamente
la domanda di liberazione (chi sono io? Chi è Dio? Qual è il senso della vita?...)
e appostandosi al confine del significato che tenderebbe a conferire alla
risposta secondo la vecchia cultura?
Questo appostarsi nei pressi dell’apertura del
significato, laddove sorge la domanda, è una ricerca di autenticità cui diamo
il nome di meditazione. Non cogitazione, dunque, ma sforzo per far rimanere
aperta la fonte di senso.
Che cosa succede al limitare di tale apertura
che non deve essere chiusa da un significato convenzionale? La risposta non può
certo venire da un concetto abituale, ma da un’esperienza che sospenda il
nostro abituale modo di pensare, da una nuova apertura di senso che per il
momento non trova parole adatte ad esprimerla, se non simboli, metafore o un
linguaggio poetico.
La prima cosa da fare è decidersi, cioè
separarsi dalla dittatura del sistema e dal pensiero di massa per raccogliersi. E questo può creare un
senso di spaesamento e di angoscia – spaesamento e angoscia che nascono
dall’essere usciti dal guscio confortevole della “cultura” dominante.
Confortevole, almeno, finché non si avverte la soffocante limitazione cui ci si
è assoggettati, con l’inevitabile perdita non solo della propria libertà, ma
anche della propria anima.
L’angoscia, dunque, era già il sintomo da cui
siamo partiti, nato dalla constatazione più o meno chiara che non eravamo
padroni né di noi stessi né della nostre esistenze, che stavamo sprecando la
nostra occasione. L’angoscia, la paura, erano i sistemi di chiusura del senso,
e sono quindi le porte da varcare.
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