"Un uomo è prigioniero delle proprie parole e padrone dei
propri silenzi": questa antica massima ci dice che le parole ci
preesistono, perché sono state inventate da altri e veicolano determinati
significati, oltre ai quali noi stessi non riusciamo ad andare. Quindi, in tal
senso, noi ne siamo prigionieri. Se per esempio dico "ti amo", uso
una formula comune che, per convenzione, significa un certo stato d'animo; ma,
essendo troppo usata, troppo standardizzata, può anche non significare niente o
significare qualcosa di diverso.
Lo stesso succede con la
parola “Dio”, che può avere mille significati.
Insomma il linguaggio si
presta ad ogni manipolazione ed esprime comunque un luogo comune in cui anche
noi dobbiamo rientrare. Siamo tutti prigionieri delle parole. Se mi devo
esprimere, se devo comunicare un concetto o una sensazione, sono costretto ad
usare quelle vecchie parole. Per fortuna abbiamo altri mezzi per esprimere e
verificare gli stati d'animo - mezzi concreti... intuito, gesti, espressioni
del corpo e del viso, osservazione, azioni, ecc.
Però, in tanti casi, come
facciamo a sapere se ciò che qualcuno ci dice è vero o non è un semlice luogo
comune? E come facciamo ad esprimere qualcosa di personale, di unico? Come
faccio a dire "ti amo" in maniera personale? Se non sono un poeta,
sarà molto difficile.
Nel silenzio sono più
libero. Non perché anche il silenzio non possa essere a sua volta una forma di
linguaggio convenzionale (in alcuni casi lo è: per esempio se taccio per
assentire), ma perché non sono costretto a incanalare in strumenti preesistenti
il mio pensiero o le mie emozioni. Certo, finisco per non comunicare più.
Questo ci dice la
difficoltà di essere autentici. Se tutto deve essere espresso in termini
convenzionali, io chi sono veramente? Ci crediamo esseri unici, ma come
facciamo a dimostrarlo? Solo gli artisti o i geni ci riescono. E tutti gli
altri? Non ripetono forse formule prestabilite? E dunque sono individui
autentici o automi creati, dalla cultura generale?
Per rispondere alla
domanda, provate a portare il problema dentro voi stessi. Riuscite a pensare o
a provare qualcosa che non riuscite ad esprimere, che sentite di non riuscire
ad esprimere? Se è così, è già qualcosa: forse riuscirete un giorno ad essere
voi stessi, a pensare con la vostra testa, a distinguervi dagli altri, a non
essere soltanto "uno del branco".
Ecco perché vi
invitiamo a fare meditazione, ossia a fare il silenzio dentro di voi. Questo
silenzio significa fare piazza pulita delle parole, dei pensieri e delle
emozioni abituali, convenzionali, di tutti. È dunque una forma di purificazione
e di liberazione.
Provate a vedere se ci
riuscite. Non è facile, perché il potere della mente convenzionale e pubblica
si insinua anche dentro di voi. Ma solo così, uscendo da questo silenzio,
potrete dire parole autentiche e potrete scoprire chi siete, al di là dei ruoli
che vi sono stati assegnati dalle convenzioni sociali.
Immergetevi
periodicamente in questo bagno purificatore e vedere se ne salta fuori qualcosa
di autentico, se riuscite a uscire dalla corazza delle convenzioni. Non sarà il
nirvana, ma servirà allo scopo ultimo della liberazione spirituale, che non è
un lavoro facile.
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