Buddhismo e cristianesimo non hanno quasi niente in comune: l'uno
mira alla liberazione dell'uomo da ogni istanza metafisica, l'altro invita alla
sottomissione ad presunto Signore dell'universo. Ma i fondatori di queste due
religioni condividono una caratteristica: la polemica contro la casta
sacerdotale e la religione dei culti, del formalismo e dei sacrifici. Ai tempi
del Buddha esisteva una precisa casta sacerdotale, quella dei brahmani, che si
arrogavano il privilegio di fare da mediatori tra gli uomini e gli dei. In
sostanza, solo i brahmani potevano celebrare le cerimonie religiose e solo i
loro rituali erano considerati validi. La loro presunzione era tale che essi
sostenevano che perfino gli dei dipendessero dai sacrifici celebrati e che le
loro formule fossero in grado di assoggettare la volontà dei celesti. Il cuore
della loro religione era dunque una serie di riti, pubblici e privati, che
dovevano accompagnare ogni avvenimento dell'esistenza. In un rituale si
potevano infatti sacrificare centinaia di tori, buoi, vacche, capre, cavalli,
ecc. Ma proprio contro questo tipo di religiosità predicava il Buddha che in
varie occasioni sconsigliò qualcuno di eseguire sacrifici propiziatori e in
parecchi testi sostiene che il vero brahmano è colui che vive attento e
concentrato, evitando passioni, attaccamenti e violenze, colui che è capace di
meditare, e non di certo l'uomo che compie esercizi ascetici o che sacrifica
animali agli dei.
Cinquecento anni dopo, anche Gesù fu fautore di una religione non
più basata sui sacrifici di animali, ma sulla misericordia. Citava la frase di
Osea: "Misericordia, voglio; non sacrifici". Ai suoi tempi, il tempio
di Gerusalemme era un enorme mattatoio in cui venivano sacrificati gli animali.
Per lui, riti e cerimonie «sacre» hanno ben scarso valore. Insieme con i profeti precedenti, ripete che il
culto voluto da Dio non è fatto di sacrifici e di liturgie, ma di azioni
pratiche, di carità verso il prossimo, per esempio dar da mangiare agli
affamati, dar da bere agli assetati, ospitare i forestieri, vestire gli ignudi, visitare i malati e i
carcerati, e aiutare in genere chiunque soffra. È per questo che il «laico»
samaritano, soccorrendo il ferito della parabola, risulta più religioso di un
sacerdote e di un levita
che certo avranno osservato ogni «iota» della Legge.
Tuttavia, non basta nemmeno
tale attività caritativa per meritarsi il regno dei cieli. Già nel giudaismo si
praticavano opere assistenziali, per le quali si costituivano particolari
associazioni. Quando Gesù ci parla di elemosine, orazioni e digiuni, segue
regole preesistenti che anche i migliori farisei osservavano. Per un ricco, non è difficile
fare un po' di beneficenza. Ma basta fare qualche offerta per assicurarsi la
salvezza?
Il culto che egli propugnava
non era qualcosa di precostituito e di esteriore, qualcosa di formalizzato una
volta per tutte, qualcosa che si sarebbe inevitabilmente burocratizzato, ma un
rapporto intimo e profondo fra la creatura e il Padre celeste. E nessuno può
«amare» Dio e gli uomini sulla base di regolamentazioni,
di riti e di prescrizioni fiscali.
Gesù si era battuto contro
la pretesa che qualche gruppo potesse erigersi a casta religiosa
«separata» (questo è il senso del termine «fariseo»).
Egli mirava a far sì che gli uomini ricuperassero un rapporto
diretto,
immediato, con il Creatore, identificato – non a caso – con la figura familiare
del Padre; e trovava proprio nella casta sacerdotale e nella setta farisaica –
con le loro pretese di mediazione fra l'uomo e Dio – il maggior ostacolo.
«Si avvicinava la festa ebraica della Pasqua e Gesù salì a Gerusalemme.
Nel cortile del Tempio trovò gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i
cambiavalute seduti ai loro banchi.
«Costruita allora una sferza
di cordicelle, scacciò tutti dal Tempio, con le pecore e i buoi; rovesciò anche
i banchi dei cambiavalute spargendo a terra il loro denaro. Poi disse ai venditori di colombe:
"Portate
via queste cose e non fate mercato della casa di mio Padre!'» (Gv 2, 13-16).
Nella
scena della cacciata dal Tempio, Gesù non se la prende solo con quei
commercianti di colombe e di altri animali da sacrificio. La sua reazione è
rivolta innanzitutto contro i responsabili del Tempio (sadducei, sacerdoti e
leviti), che fanno
del culto una forma di mercanteggiamento con Dio. Costoro capirono
perfettamente che l'attacco era rivolto contro di loro, tanto che – come scrive
Luca – «i sommi sacerdoti, gli scribi e gli altri notabili del popolo cercavano
il modo di farlo morire» (Lc 19, 47). Il suo atteggiamento «antiecclesiastico»
è dunque più che evidente. Non solo predice la rovina del Tempio ma, ogni volta
che nomina le sinagoghe, le considera luoghi in cui i suoi seguaci saranno
torturati:
Ma se Buddha e Gesù sono
accomunati da questa polemica contro la casta sacerdotale e contro la religione
dei rituali, l'esito storico sarà diverso. Mentre infatti Gesù, privo di senso
pratico, finirà per essere fatto fuori dalla casta che criticava, Buddha,
proveniente da una classe sociale elevata e dotato di senso politico, riuscirà
a campare fino a tarda età. Il fatto è Gesù, benché parli di amare i nemici, si
contrapponeva irosamente ad essi; invece nel DNA del Buddha c'era proprio la
non-contesa, il non-odio, la non-ira.
Resta comunque del tutto
incredibile che Gesù, con quel che sapeva delle religioni organizzate, volesse
che se ne costruisse una a suo nome. Questa è certamente un’interpolazione
aggiunta dai primi cristiani che, contro il loro maestro, volevano istituire proprio
una Chiesa.
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