Tutti noi, fin da bambini, abbiamo dovuto imparare a impiegare
bene le parole. Perché, nella nostra civiltà, è evidente che chi manipola
meglio le parole fa più strada. Basta accendere radio o televisione per
ascoltare politici, giornalisti, professori, avvocati, sindacalisti, esperti
d'arte, economisti e compagnia bella. Sono loro i modelli vincenti, sono loro che
occupano i posti più alti della scala sociale. Sanno parlare bene, sanno
esprimersi, sanno sviscerare problemi e sanno attirare l'attenzione delle masse
che indirizzano in un senso o nell'altro.
Ma le parole, e i
concetti che stanno alla base della nostra cultura sono strade già tracciate e
percorse da altri - non sono una nostra creazione. Dunque, quando le usiamo, in
realtà diventiamo dei ripetitori. Dove è finita, allora, la nostra autenticità?
Le parole sono concetti standard, mezzi usurati, convenzioni, idee altrui, ed è
difficile che diventino "nostre".
Quando cerchiamo di
esprimere qualcosa di autentico, qualcosa di profondamente sentito o pensato,
che cosa facciamo? Rientriamo nei vecchi solchi delle parole e li seguiamo?
Com'è possibile esprimere - e anche solo provare - qualcosa di assolutamente
personale? Se ci poniamo il problema, scopriamo di essere terribilmente
condizionati. Le parole servono ad esprimerci, ma sono anche troppo vecchie,
troppo limitate. E ciò che dico o penso io non può che essere qualcosa di
ripetitivo, di non personale. Siamo degli automi?
Ci crediamo persone
uniche, ma utilizziamo pensieri e parole che sono luoghi comuni. Siamo sicuri
di essere veri individui? Lo sapete che la parola persona significa
"maschera"? E credete che i sentimenti che provate per chi amate
siano davvero "vostri", o sono anch'essi produzioni in serie?
Se si incomincia a
ragionare così, si rischia di impazzire. Ma è una pazzia utile. È come se noi
fossimo soltanto delle copie - è come se tutto ciò che pensiamo, sentiamo ed
esprimiamo fosse la ripetizione di cose già pensate, provate ed espresse. Alla
fine esistiamo veramente o siamo semplici maschere - maschere che sono vuote
dentro, che non hanno nessuna sostanza? Altro che anima! Siamo come le
formiche. Morti noi, ci sarà un'altra maschera, ci sarà un'altra formica, che
ripeterà le stesse cose che abbiamo detto, provato e fatto noi credendoci
originali e addirittura unici.
Però, riusciamo ad
avere questi pensieri e questi dubbi - cosa che le formiche non possono avere.
E qui può incominciare il nostro riscatto, la nostra lenta risalita, il nostro
risveglio. In che modo? Disimparando tutto ciò che ci è stato insegnato,
decondizionandoci, smettendo per un po' di parlare e perfino di pensare. Se
vogliamo essere noi stessi, se vogliamo diventare individui autentici, se
vogliamo acquisire un'anima, dobbiamo tornare come bambini incapaci di parlare
e di scrivere, dobbiamo dimenticare la nostra mente, che è stata così a lungo
manipolata, che è il prodotto della società e della cultura.
Questo processo di
depurazione o di decondizionamento è ciò che chiamiamo meditazione. Che quindi
non può ricorrere né a parole né ai soliti concetti dualistici di bene-male,
giusto-sbagliato, vero-falso, vita-morte, eccetera eccetera. Che cosa rimane a
nostra disposizione?
La nostra attenzione priva
di concetti, la nostra consapevolezza nuda, la nostra esperienza diretta, senza
filtri. Stare in silenzio, guardare il mondo con distacco, liberarci delle
frasi fatte, fare il vuoto interiore... Quello che rimarrà, sarà già un
riflesso del sé originale che cerchiamo.