Quando ci dicono di osservare la mente,
forse non capiamo che cosa dobbiamo fare.
Si tratta di notare a che cosa stiamo
pensando o che cosa stiamo provando. Ci sono pensieri? Ci sono emozioni?
La mente è una specie di schermo su cui
scorrono eventi e con cui ci identifichiamo. Tali eventi sono discontinui,
perché sorgono e cessano, e, talvolta, c’è un momento di immobilità in cui
possiamo cogliere solo la presenza
dello schermo.
Noi abbiamo l’impressione che questi
eventi mentali si riferiscano ad un unico soggetto: l’io. Ma, se ci domandiamo chi provi questi pensieri e questi
sentimenti, non riusciamo a trovarlo. Non è enucleabile come un pensiero: è
qualcosa che sfugge.
La ricerca sembra dunque infruttuosa. Sentiamo l’io, ma non lo troviamo. È
qualcosa di evanescente.
Una situazione paradossale: la nostra
massima certezza è anche la più sfuggente. C’è una presenza, ma non c’è chi è presente.
Ma l’io di che cosa è fatto?
Indubbiamente c’è un corpo visibile e tangibile; però l’io non si riduce a
questo.
È qualcosa di immateriale. È come
avvertire in una stanza la presenza di qualcuno (forse da un fruscio, da un
riflesso, da uno spostamento d’aria o da un odore) senza riuscire a
identificare la persona. Chi è
presente?
L’addestramento sta proprio in questo:
avvertire questa presenza e poi cercarla di renderla stabile, perché si tratta
proprio della nostra natura fondamentale, un’energia pulsante permeata di
chiarezza.
Il problema è che noi cerchiamo di farne
un oggetto di conoscenza dividendoci in due. E invece la presenza è uno stato di
immedesimazione in cui non c’è più distanza tra soggetto e oggetto.
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