Valentina
Guglielmo 22/11/2024
È un Luca Perri da tutto
esaurito quello di Kosmos, il nuovo spettacolo
teatrale sulla storia dell’universo andato in scena per la prima volta il 4
novembre e con date programmate in tutta Italia, a oggi, fino ad aprile. Una
sorta di lezione/monologo in cui l’astrofisico e divulgatore racconta come la
scienza e gli scienziati sono arrivati a scoprire tutto quello che sappiamo (e
non sappiamo) sul funzionamento dell’universo. Un racconto denso e condito di
aneddoti, esempi e una grafica sviluppata ad hoc da
Michael Lucini. Classe 1986, originario di San Giovanni Bianco, un paesino
nella provincia di Bergamo, Luca Perri è un volto noto come divulgatore su diverse
piattaforme: social, radio, tv, carta stampata e libri. Martedì 19
novembre Kosmos è andato in scena al
teatro Camploy di Verona, noi di Media Inaf siamo
andati a vederlo e abbiamo intervistato l’autore.
Perri, come riesci a fare
sempre sold
out con
una lezione di due ore e mezza che nemmeno al secondo anno di fisica?
«Allora, intanto pensa che avrebbe potuto essere peggio, dato
che ho dovuto tagliare. Diciamo che il mio obiettivo non è che le persone
escano conoscendo la cosmologia, conoscendo il funzionamento perfetto della
nucleosintesi. Più che passare la nozione, vorrei che le persone comprendano
quanto è stato complicato fare quel tipo di ricerca, quanto effettivamente
dietro a frasi che loro danno per scontate perché mediaticamente sono passate
così, tipo “l’universo ha 13.8 miliardi di anni” o “l’universo si espande”, ci
siano stati secoli di ragionamenti, dibattiti e ricerca. Quindi, quello che a
me interessa è che escano affascinati da quanto l’umanità, da un punto
scomodissimo del cosmo, sia riuscita a ricostruire e a comprendere – con tutte
le domande aperte del caso. E, al contempo, che comprendano che ogni domanda
aperta è una cosa bella, è uno stimolo più che un limite. Quindi, io voglio
lasciare loro un messaggio più che una nozione. Poi, se loro sono incuriositi
magari andranno anche ad approfondire l’argomento, o torneranno a vedere lo
spettacolo – cosa che qualcuno fa. Ma quello che a me interessa è diffondere
consapevolezza e fascino verso la scienza. Questo è il mio ruolo da
divulgatore, perché non sono un professore».
Lo dice il titolo del tuo
spettacolo, “la storia dell’universo dal big bang a oggi”. Un titolo che,
scritto così, sembra quasi già visto. Allora cosa c’è di diverso, di
particolare, nel tuo racconto?
«A parte la logorrea? Direi, forse proprio la contentezza nel
non sapere le cose. Credo che sia una caratteristica che mi contraddistingue.
C’è chi vede l’ignoranza – intesa questa come “mancanza di conoscenza” – come
un limite o una cosa negativa; invece, a me è sempre sembrata un grande
stimolo. Io dico sempre che l’universo è un videogioco con infiniti livelli, e
siccome a me piace giocarlo, il fatto che ci siano infiniti livelli e quindi
che non lo finirò mai mi dà stimoli positivi più che depressione, perché so che
potrò continuare a giocarci per tutta la vita. E credo che questo sia poi lo
spirito alla base dello spettacolo. È vero che la narrazione della storia
dell’universo è stata fatta tante volte, ma io ho cercato di farla mia, perché
come dicevo la storia dell’universo alla fine è un po’ la storia di tutti noi.
Nella narrazione sono partito, anche per questo, da La Palma, che è un luogo
che sento mio, che fa parte della mia storia, e da lì ho cercato di far
emergere il senso di fascino e di bellezza con cui io vedo il cosmo. E quindi,
anche come io vedo le cose che non sappiamo del cosmo. Credo che questa sia la
caratteristica con cui descrivere il mio spettacolo: meraviglia del non
sapere».
A proposito del modo con cui si
affronta il non sapere, nella narrazione che proponi sembra quasi che la
fisica, a volte, sia dominata dalla fantasia o da invenzioni un po’ assurde che
in qualche modo però stanno in piedi…
«Che nella mia testa è vero, fra l’altro».
Ecco. Allora, le persone
potrebbero pensare che gli scienziati si sveglino il mattino con idee un po’
strampalate e campate per aria e che provino a vedere se, quasi magicamente e
senza capire davvero perché, funzionano. Pensi che sia una visione corretta di
quello che fa uno scienziato?
«No, no, non è una visione corretta e spero che non passi solo
questo. Ma che ci sia un grado di serendipità e di fantasia, quello a me piace
che passi. Cioè noi, come popolazione intendo, siamo convinti che la scienza
sia una roba super razionale, che gli scienziati non siano esseri emotivi, ma
in realtà non è così. Siamo semplicemente persone che seguono una passione,
anche perché altrimenti – detto fra noi – la maggior parte delle volte chi ce
lo fa fare di fare scienza, vista anche la situazione non proprio rosea in cui
versa la ricerca. Quindi, gli scienziati sono, io dico, dei bambini mai
cresciuti. I bambini – e noi per questo ci lamentiamo, sbagliando – chiedono
il perché di qualunque cosa e in questo gli scienziati sono come loro. Il loro
lavoro procede per curiosità successive, che significa sia porsi nuove domande
sia trovare nuove risposte a vecchie domande. E per fare questo servono
fantasia e creatività. Poi, ovviamente, c’è il metodo scientifico, che
razionalmente dice se una cosa funziona o no; se questa previsione osservabile,
magari legata a una tua idea strampalata, funziona o no. Quindi, per me gli
scienziati procedono per fantasia e creatività, anche quando non credono che
sia così perché altrimenti non gli verrebbero nuove idee. Dopodiché prendono
cantonate – buona parte delle volte – e pian piano cercano di avvicinarsi al
reale, come si diceva martedì sera in vari esempi. Quindi, che passi l’idea che
a volte gli scienziati hanno idee strampalate a me non dispiace perché è vero,
ma poi c’è il metodo scientifico, che è il nostro strumento più importante: non
ci impedisce di sbagliare, ma rettifica e ci fa rendere conto di quanto una
cosa che abbiamo detto abbia senso o meno».
Infatti, fra le parole più
sentite nel tuo spettacolo di ieri ci sono “problema”, e “boh, ma funziona”.
«Che nella cosmologia è
un sacco vero, lo applichiamo spesso. E non solo nella cosmologia, ma spesso
quando ci sono materie così complicate – più che complesse, mi sento di dire –
in cui le dimensioni di cui si parla sono enormi, ed è difficile creare
esperimenti che le rappresentino. Pertanto, quando gli esperimenti ti danno una
risposta che funziona, anche se non te la spieghi, la prendi così com’è. Poi,
magari, cercherai di affinare la tua teoria in modo da spiegarla. Facciamo un
esempio: stiamo cercando da decenni di capire cosa sia un gamma ray burst, però che il gamma ray burst ci sia e funzioni in un quel modo
buffo, con un rilascio di energia così grande che all’inizio sembrava
impossibile, quello è un dato che va preso. Dopodiché lo prendi e, funziona?
Sì. Perché? Boh. E per rispondere ti ci spacchi su la testa per decenni».
Ma chi è Luca Perri, oltre a
essere un astrofisico? Faresti sold out anche con uno show a tema
ingegneristico, o gastronomico, per dire?
«Ingegneristico no,
gastronomico può essere. Io sono un enorme appassionato di cucina, sia da
mangiare che da cucinare. Ai miei amici, scherzando, mi piace dire che io
cucino meglio di come parlo. Sono nato a Bergamo, ma sono originario per metà
dalla Calabria e per metà dalla Sicilia, e con due nonne del sud che cucinavano
dalla mattina alla sera, essendo io molto goloso, sono praticamente cresciuto
nelle loro cucine. E questo mi ha dato una grande passione per la cucina.
Quindi, io posso parlare anche dodici ore di come si cuoce questo o
quell’altro, e questa è sicuramente un’altra cosa sulla quale avrei molto da
dire. Oppure quella che io chiamo cinematografia nerd. Penso che, a prescindere
dal mio ruolo lavorativo specifico, ovvero quello di essere astrofisico, potrei
parlare con quell’entusiasmo che la gente mi riconosce di tutte le cose che mi
piacciono e mi appassionano. Perché per me l’astrofisica, così come la scienza
in generale, è un gioco. E se è un gioco allora mi appassiona, e soprattutto
voglio che più persone possibili giochino assieme a me. Questo è lo spirito con
cui affronto conferenze e spettacoli, e sarebbe lo stesso con cui affronterei
un dibattito sul cibo o su guerre stellari o qualunque altra cosa nerd, fra cui
la nuova traduzione del Signore degli anelli.
Quest’ultima, ad esempio, è successa proprio recentemente dopo un mio
spettacolo sulla scienza del Signore degli anelli:
mi sono trovato in sala diverse persone dell’associazione italiana studi
tolkieniani e abbiamo discusso un’ora e mezza della nuova traduzione»
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