Pubblico questo articolo di cui ho perso l'autore perché mette in evidenza una problematica essenziale: la diade esplicito/implicito che segue da vicino quella tra conscio e inconscio. Soprattutto si pone il problema della funzione della coscienza.
Ho trascorso qualche tempo all'Università del Sussex, a Brighton, anni fa.
A un dipresso da dove lavoravo, alla Scuola di Scienze Biologiche, c'era il
Laboratorio di Psicologia Sperimentale, fondato e diretto da uno scienziato
carismatico, Stuart Sutherland, che si era da poco e precocemente ritirato a
causa dei postumi di un improvviso crollo nervoso. Sutherland era piuttosto
noto, un po' per gli aneddoti e i pettegolezzi che circondavano la sua figura e
un po' per un libro assai impudico in cui aveva narrato quello che gli era
accaduto, Crollo mentale (Armando Editore, 1982). Non era amatissimo, perché i
suoi comportamenti, a causa delle difficoltà psicologiche, apparivano
eterodossi persino per l'ambiente accademico britannico, che pure è conosciuto
per non disdegnare l'eccentricità.
Negli anni Sessanta Sutherland aveva condotto a Napoli, alla Stazione
Zoologica Anton Dohrn, dove si recava tutte le estati, una serie di esperimenti
sui polpi che gli avevano fatto guadagnare la celebrità scientifica. Il crollo
nervoso, in realtà una depressione bipolare, aveva avuto come causa scatenante
la scoperta che la moglie lo tradiva (o, forse più probabilmente, il
superlavoro cui si sottoponeva). Nel libro Sutherland percorre con lucidità e
disincanto tutte le possibili forme di terapia disponibili all'epoca cui decise
di sottoporsi: dai farmaci alla psicoanalisi, dalla terapia comportamentale a
quella cognitiva, svelando gli esiti assai deludenti di tutte. Per uno studioso
del cervello credo sia stato terapeutico toccare con mano la distanza tra le
cose che aveva appreso nei suoi studi di laboratorio e la pochezza del loro
possibile utilizzo clinico. Sospetto che da allora (il libro è degli anni
Settanta) le cose non siano molto cambiate.
Sutherland non si riprese mai completamente e, ritiratosi dalla ricerca, si
dedicò alla scrittura, sia saggistica sia narrativa (molto godibile il suo
romanzo Men change too, Ronald P Frye & Co Publisher, 1987) centrato sulla
figura di un professore di psichiatria di Oxford che si innamora di una giovane
allieva, che credo non sia mai stato tradotto in italiano). Lo spirito caustico
di Sutherland si esercitò anche nella compilazione di alcuni lemmo per un
dizionario di psicologia, ed ecco spiegata la ragione di questa mia lunga
digressione. La voce «Coscienza», da lui stesa nel 1989, recita: «La coscienza
è un fenomeno affascinante, ma elusivo; è impossibile specificare che cosa sia,
che cosa faccia, o perché si sia evoluta. Su di essa non è stato scritto nulla
che valga la pena di essere letto».
Come per le terapie rivolte ai disordini della psiche temo che dopo
trentacinque anni l'impietoso giudizio rimanga valido: della coscienza non
sappiamo dire che cosa faccia o perché si sia evoluta. Forse, però, possiamo
specificare che cosa sia, anche se ignoriamo i meccanismi che la producono.
Possiamo specificarlo per negazione, contrapponendo quegli aspetti del
comportamento che sono accompagnati da coscienza da quelli che invece non lo
sono. La clinica neuropsicologica offre a questo proposito osservazioni illuminanti,
ad esempio la sindrome nota come negligenza spaziale unilaterale. Questa si
rivela come un'assenza di risposta agli stimoli sensoriali che vengono
presentati nell'emi-spazio di sinistra (perché di solito la lesione coinvolge
l'emisfero destro). I pazienti leggendo un titolo di giornale noteranno solo la
parte a destra del testo; a pranzo si occuperanno solo del lato destro del cibo
che sta nel piatto, lasciando il resto; sbarbandosi il mattino si cureranno di
radere solo la metà destra della faccia e così via. Già negli anni Ottanta,
tuttavia, il neuropsicologo John Marshall attirò l'attenzione degli studiosi
sul fatto notevole che, seppure non in forma cosciente, una elaborazione
implicita degli stimoli fosse possibile nel campo apparentemente negletto.
Marshall mostrò al suo paziente il disegno di due case del tutto simili
nell'aspetto, salvo che una di esse mostrava nella parte sinistra di essere
avvolta dalle fiamme. Richiesto di dire quel che vedeva il paziente dichiarò
che le due case gli apparivano identiche, mostrando l'attesa negligenza per la
parte sinistra del disegno della casa in fiamme. Tuttavia alla richiesta di
dire in quale delle due preferisse vivere, pur dichiarando che la domanda gli
pareva sciocca essendo le due case eguali, mostrava di preferire sempre quella
senza le fiamme.
Questa dissociazione implicito/esplicito, come viene chiamata in
neuropsicologia, la dissociazione cioè tra quelle conoscenze che possediamo in
forma tacita, senza che ne abbiamo consapevolezza, e quelle invece di cui
abbiamo coscienza, il cui contenuto possiamo esplicitare per esempio con il
linguaggio, si rivela anche nelle amnesie. I pazienti amnesici profondi hanno
preservate varie forme di apprendimento percettivo, motorio e cognitivo e ciò
può essere dimostrato con metodi che non richiedono la rievocazione
consapevole. Così, un paziente amnesico può rispondere più velocemente a uno
stimolo veduto in precedenza, senza però ricordare di averlo visto, né quando
né dove. Un esempio famoso è quello della paziente che fu punta con uno spillo
dallo psicologo Edouard Claparede mentre i due si stringevano la mano nel corso
del loro primo incontro. Quando dopo pochi minuti Claparede si ripresentò alla
paziente, questa fece mostra di non riconoscerlo, come accade ai pazienti
amnesici, ma tuttavia si rifiutò di stringergli la mano, sostenendo che a volte
nelle mani ci possono essere degli spilli, senza però ricordare quanto era
accaduto poc'anzi.
Il problema scientifico che pone questo genere di evidenze è chiaro. Se possiamo
evitare il pericolo di una casa in fiamme o di una pungente stretta di mano
senza consapevolezza del perché lo facciamo, a che cosa serve la coscienza? Il
pilota automatico del nostro inconscio cognitivo appare essere
straordinariamente efficiente. Perché allora la nostra vita mentale non procede
nella totale inconsapevolezza? La risposta non la conosciamo, ma vien da
chiedersi se non siano le forme di vita più semplici e ancora imperfette come
la nostra che posseggono la coscienza, e se i cervelli davvero sviluppati
possano farne a meno.
Tutto ciò ci porta all'idea
del paradosso di
Hardy. Sebbene possa sembrare complesso, le sue implicazioni
hanno ramificazioni su quanto sia reale il nostro universo e su cosa significhi
il termine "realtà". In una nuova ricerca, gli scienziati in Cina
affermano di aver trovato un modo per osservare questo esercizio di pensiero
paradossale nella fisica quantistica senza nessuna delle scappatoie che hanno
potenzialmente compromesso gli esperimenti passati.
Lucien Hardy è
un fisico teorico che lavora presso il Perimeter Institute for Theoretical
Physics nella periferia di Toronto. Hardy ha trascorso la sua lunga carriera
cercando di raggiungere e perfezionare i confini dell'intera forma della fisica quantistica,
incluso il modo in cui i principi matematici che la supportano interagiscono
con le teorie che descrivono il nostro universo.
Pertanto, nel 1992 Hardy iniziò a formulare un paradosso relativo a particelle
e antiparticelle. Certe interazioni in fisica causano
la creazione e il lancio in direzioni opposte di una particella e della sua
antiparticella corrispondente. Queste due sono destinate l'una all'altra, però,
e proprio come Romeo e Giulietta, il loro legame causa inevitabilmente l'annientamento di
entrambe: dopo la più piccola frazione di secondo, si
riuniscono e si distruggono a vicenda. Ciò che Hardy ha postulato è uno
scenario in cui la particella e l'antiparticella potrebbero coesistere senza
annientamento.
Hardy sapeva che impostare e misurare un'interazione del genere
avrebbe introdotto variabili
capaci di minacciare l'integrità dell'interazione stessa. Anche
questa è una domanda fondamentale della fisica quantistica: come può un campo
di studio che produce solo probabilità funzionare insieme al paradigma basato
sull'osservazione della fisica classica?
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