domenica 16 giugno 2019

L'atteggiamento del Testimone


Esiste un rapporto tra felicità e meditazione, nel senso che molti si avvicinano alla meditazione per calmarsi, per abbassare la pressione e la tensione, per essere più equilibrati e comunque per sentirsi meglio, per aumentare il benessere personale. Questo utilizzo della meditazione è certamente lecito, soprattutto in tempi come i nostri in cui domina un senso di insoddisfazione e di incertezza generale. Così facendo, vorremmo almeno godere di lunghi periodi di tranquillità. Non c'è niente di male in questo, poiché tutti cerchiamo di essere il meno infelici possibili.
La vita, però, ci pone prima o poi di fronte a grandi difficoltà e dolori, che non possiamo in alcun modo evitare. Nessuno può evitare malattie, vecchiaia e morte - degli altri e di noi stessi. Il nostro benessere prima o poi se ne va e noi ci troviamo ad affrontare rabbia, paura, disperazione e tanta sofferenza. A cosa serve a quel punto la meditazione?
Bisogna farsi una "filosofia" di vita e capire che dobbiamo essere pronti a soffrire. Dovremmo essere così saggi da comprendere che la vera felicità non consiste nell'evitare i dolori, ma nell'essere sereni anche quando ci sono esperienze negative.
Dobbiamo imparare ad essere presenti in qualunque esperienza ci si presenti, bella o brutta che sia. Questo è il punto. Il vero scopo della meditazione non è tanto quello di essere felici, ma di essere consapevoli con saggezza. E noi possiamo e dobbiamo essere consapevoli in e di qualunque esperienza.
Anzi, le esperienze dolorose vanno affrontate come mezzi per imparare di più e per scacciare l'illusione che il dolore sia necessariamente qualcosa di negativo e che noi dobbiamo essere sempre felici, imperturbabili e perfetti.
La vita è stata fatta così, con alti e bassi continui, con esperienze positive che si alternano ad esperienze negative.
Ma se noi adottiamo l'atteggiamento meditativo di colui che vuole imparare ed essere consapevole di tutto ciò che gli capita, saremo sempre presenti.
Insomma conviene adottare l'atteggiamento dello spettatore che va a teatro: vuole assistere a tutto ciò che accade nella scena, sia agli episodi piacevoli sia a quelli spiacevoli. Non va a vedere una commedia, ma una rappresentazione della vita stessa, in cui il bene e il male, il piacere e il dolore sono sempre mescolati. E lui osserva tutto, con interesse, con "piacere".
Ecco, questa è la "felicità" di cui si parla nella meditazione, non quell'altra che è il semplice contrario dell'infelicità.

3 commenti:

  1. Buongiorno, leggo sempre con molto interesse le sue riflessioni. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa della meditazione mindfulness e come valuta questo articolo, pubblicato dal Guardian, fortemente critico verso di essa:
    https://www.theguardian.com/lifeandstyle/2019/jun/14/the-mindfulness-conspiracy-capitalist-spirituality
    La ringrazio e la saluto con grande cordialità.
    Luca Nicola

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  2. Articolo ben fatto che mette il dito nella piaga. E' vero che la meditazione di consapevolezza è stata americanizzata (al punto da chiamarla awareness) e talvolta ridotta a puro intimismo che lascia lo status quo sociale. E' vero che talvolta dà l'impressione che tutti i problemi siano risolvibili con un po' di concentrazione e di tranquillità interiore. E' vero che sembra ridurre tutti i problemi a qualcosa che sta dentro di noi, trascurando le cause sociali e politico-economiche del disagio e della sofferenza. Ma tutto dipende da come e da chi la pratica. Io per esempio mi occupo anche di religione e di politica, facendo storcere il naso a qualcuno. E ripeto di continuo che prendere consapevolezza significa rivolgere l'attenzione non solo ai propri problemi psicologici, ma anche ai problemi sociali e in particolare alle dinamiche del potere.
    Cercare il risveglio significa aprire gli occhi davanti alla realtà nel suo complesso, significa prendere le distanze dalle tecniche di manipolazione dell'economia e della politica. Qualcuno vuol farci dormire. E noi dobbiamo stare svegli, proprio con la meditazione.

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  3. Sì, infatti apprezzo molto questa sua posizione. Aggiungo che nell'articolo ho trovato molto interessante il riferimento a quanto, nella mindfulness, è stato depurato del buddhismo: tutta la parte degli insegnamenti sull'etica. E, aggiungo, l'importanza del sangha, della comunità. Tutte cose su cui nei suoi vecchi libri insisteva molto Tich Nath Han, il primo in realtà a parlare del "miracolo della presenza mentale".

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