Se siamo agitati, ansiosi o
preoccupati, il nostro respiro sarà corto, contratto, accelerato, irregolare,
superficiale: non potremo rilassarci, non potremo dormire bene, non potremo
distenderci.
Al contrario, quanto più la
nostra mente sarà rilassata, tanto più sarà rilassato, calmo e profondo il
respiro. Questo perché esiste un rapporto strettissimo fra psiche e soma, che
sono un tutt’uno, rappresentando ciò che noi siamo unitariamente in un certo
momento. Anche sul piano etimologico, la parola “respiro” è collegata alla
parola “spirito.” Nel Vangelo di Giovanni è scritto che lo spirito è come il
vento che soffia dove vuole. Nel libro del Genesi, si dice che Dio soffiò nelle
narici dell’uomo uno “spirito vitale” e l’uomo diventò un essere vivente.
In Oriente, infine, la
parola prana indica il respiro in
quanto energia cosmica che pervade ogni cosa.
Resta il fatto, comunque,
che la vita incomincia con il primo respiro e finisce con l’ultimo respiro.
Stando così le cose, ci
sembrerebbe logico agire sul respiro per agire sulla mente. In parte è vero, ma
bisogna stare attenti a non forzare. Dobbiamo cercare non tanto di agire sulla respirazione, quanto di lasciarla
stare, di lasciare che si calmi spontaneamente. Se si calmerà da sola, anche la
mente si calmerà.
Se ci sforzeremo sarà uno sforzo dell’io che tenta di ottenere uno stato
di calma: di fatto un controsenso.
Il metodo migliore per
calmare la mente-respiro è l’attenzione. Non a caso, quando siamo concentrati
piacevolmente su qualcosa, quando siamo rapiti da qualcosa, diciamo che “tratteniamo
il respiro.”
Questo “trattenere il
respiro-spirito” è la condizione meditativa migliore, corrispondente al
samadhi. È uno stato di concentrazione in cui il soggetto si assorbe nell’oggetto,
in cui, cioè, si supera il dualismo.
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