giovedì 2 aprile 2015

Upanishad

Possiamo dire che meditare è crearsi uno spazio mentale, una stanza di compensazione, una camera relazionale in cui gli avvenimenti (anche i più sensibili e pericolosi) possono essere fatti transitare ed esaminati. Si tratta di una finestra per guardare dentro di sé, del senso di una presenza sconosciuta e infinita.
È la “caverna del cuore” di cui parlano le Upanishad, gli antichi testi indiani che pongono le basi di una spiritualità elevatissima, sconosciuta alle religioni di massa che infestano il mondo.
È il “tesoro nascosto” su cui tutti passano senza notarlo, il “mozzo della realtà” che fa da perno ad ogni movimento, la “sorgente di ogni attività”, il punto in cui s’incontrano l’atman individuale e il brahman universale, l’interiorità cosmica, l’intimo sé, al di là di ogni dualismo: bene-male, conoscitore-conosciuto, soggetto-oggetto, maschile-femminile, ecc.

Questo centro non è conseguibile né con le parole né con il pensiero, ma solo facendo il vuoto di tutti i condizionamenti dentro di sé.

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