Publico questo articolo perché Vallortigara mette in evidenza due punti che mi interessano. Il primo è che la coscienza appartiene a tutti gli esseri senzienti , perché possiedono esperienze soggettive, cioè un mondo interiore; e la seconda che la coscienza è in qualche modo legata al movimento attivo.
Io stesso mettevo in evidenza che anche al mondo mentale bisogna applicare le leggi della dinamica .
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Il "movimento attivo ha condotto con sé il problema di distinguere due varietà della stimolazione, quelle che il filosofo Thomas Reid chiamava sensazione (cosciente) e percezione (non cosciente), come risultato dell’incontro passivo o attivo (legato cioè al movimento dell’animale stesso) con lo stimolo. La mia idea, che richiederebbe un po’ di dettagli tecnici, ridotta all’osso è che la soluzione sia stata quella di un meccanismo di copia efferente conseguente alla risposta allo stimolo e che sia questa “copia carbone” della risposta motoria che fornisce il senso di autorialità alla nostra esperienza (sono io che sento quell’odore o che vedo quel colore, nel senso che sono io che emetto una risposta corporea). A differenza di altri modelli simili, nella mia ipotesi il confronto avverrebbe tra segnali motori anziché tra un segnale motorio e uno sensoriale”.
Manca la mia intuizione che la coscienza è espressione di un dualismo universale (diadico), presente dappertutto.
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La coscienza non è solo degli umani: gli insetti sono pronti a stupirci
Il neuroscienziato Giorgio Vallortigara e gli studi di frontiera su che cosa significa essere senzienti: “Possedere o non possedere esperienze, questo è il confine decisivo”
Nicla Panciera
18 Dicembre 2024 alle 06:00
4 minuti di lettura
amithnag@gmail.com
Anche i bombi giocano. Eppure, tendiamo a credere che siano animali privi di vita interiore o, detto in altro modo, di esperienze soggettive. Chi le ha è un “animale senziente”: quando percepisce un suono o un odore prova attrazione, paura o dolore.
C’è un ampio consenso tra gli scienziati sul fatto che solo gli animali simili a noi abbiano un’esperienza cosciente. Ma tutti gli altri? Come si è arrivati a includere anche gli invertebrati nel ristretto club dei dotati di coscienza? Ne abbiamo parlato con Giorgio Vallortigara, direttore del Laboratorio di cognizione animale e neuroscienze dell’Università degli Studi di Trento e autore di un libro sul tema, intitolato “Pensieri della mosca con la testa storta” (Adelphi 2021; traduzione inglese “The Origins of Consciousness”, Routlege, UK, settembre 2024).
Professore, siamo di fronte a un cambio di definizione?
“Samadi Galpayage, la ricercatrice che ha documentato il gioco nei bombi durante il dottorato nel laboratorio di Lars Chittka a Londra, adesso lavora come postdoc nel mio laboratorio. Quello che lei ha fatto è stato verificare se i criteri usuali che si impiegano per definire il gioco nei vertebrati reggano anche per un invertebrato come il bombo e parrebbe proprio di sì. Quanto alla coscienza, la definizione di fatto non è cambiata: il cosiddetto “problema difficile della coscienza” (“the hard problem” di David Chalmers) si riferisce a quello che i filosofi chiamano coscienza fenomenica, il fatto cioè che si provi qualcosa, si senta qualcosa a essere un particolare tipo di organismo e che la stimolazione sensoriale abbia una qualità, come vedere rosso oppure odorare essenza di trementina…”.
Che cosa è successo, allora?
“Sono cambiate, direi, due cose. Primo: sul piano del comportamento ci si è resi conto che animali anche molto diversi da noi posseggono repertori comportamentali non così dissimili dai nostri, come nel caso del gioco nei bombi. Secondo, ci siamo resi conto che i sistemi nervosi possono presentare una varietà di architetture nelle diverse specie, tutte capaci di reggere comportamenti similari”.
Lei è tra gli scienziati e i filosofi firmatari della recente dichiarazione “The New York Declaration on Animal Consciousness”, redatta in occasione della conferenza sulla scienza emergente della coscienza animale alla New York University. Perché questa presa di posizione?
“Sono stato in dubbio se aderire o meno alla dichiarazione. Alcuni miei colleghi e amici che stimo molto non l’anno fatto, per esempio Nick Humphrey, notando che dovremmo preoccuparci di documentare scientificamente la presenza di coscienza negli altri organismi prima di dichiarare alcunché. Sono d’accordo. Tuttavia, la dichiarazione ha una forma assai aperta e prudente e sollecita la comunità scientifica a considerare la possibilità che siano senzienti animali come gli insetti, senza dire che ne siamo certi. Quindi io vedo la “Declaration” come uno stimolo e un invito a proseguire e approfondire le ricerche in questo ambito, certo non come una affermazione dogmatica. Inoltre, trovo che, a parte le evidenze che derivano dalle dissociazioni implicito/esplicito inconscio/conscio che vengono dalle evidenze cliniche, e che sono documentate sia nell’uomo sia in altre specie animali, la ragione principale per cui riteniamo siano coscienti i nostri simili è che ce lo dicono e noi ci fidiamo di quel che ci dicono, non esattamente un grande esempio di evidenza scientifica”.
Esiste, quindi, una possibilità realistica che insetti, polpi, crostacei, pesci e altri animali dai sistemi nervosi completamente diversi e molto più semplici sperimentino la coscienza: quali possono essere le conseguenze di questa evidenza?
“Personalmente trovo che sia assai probabile che la coscienza sia associata a circuiti nervosi semplici e che sia comparsa assieme al movimento attivo negli animali. Su quest’idea e su quale potrebbe essere il meccanismo neurale ho scritto il libro “Pensieri della mosca con la testa storta”. Le conseguenze riguardano soprattutto il piano intellettuale e culturale, il venire meno dell’idea, che io giudico antropomorfica e pre-scientifica, che la coscienza sia un attributo esclusivo della nostra specie, associato a una qualche specie di miracolo che accadrebbe con la presunta “complessificazione” del sistema nervoso”.
E sul piano etico?
“Qui, la sorprenderò, non immagino grandi cambiamenti: questo perché le società occidentali già si stanno muovendo nella direzione di una generale adesione a un principio di precauzione. Consideri l’ambito proprio del mio lavoro: i ricercatori che fanno sperimentazione animale si comportano “come se” un animale, quale esso sia, potesse provare dolore e mettono in atto tutte le procedure necessarie a minimizzare ogni sofferenza, esattamente come facciamo con le persone. Il che, ovviamente, non significa rinunziare a condurre esperimenti sugli animali, che sono fondamentali per noi così come lo sono per le altre specie”.
Negli umani ci sono livelli e fluttuazioni di coscienza. Nel caso della coscienza percettiva, quello che resta sotto soglia non è meno importante per l’azione. Di fronte a questa frammentazione e mancanza di unanimità su cos’è e dov’è in noi parlanti, che senso ha parlare di coscienza degli invertebrati?
“Dissento sull’idea che ci siano livelli di coscienza. Io la vedo così. Ci sono cose nel mondo che non hanno esperienze, come le pietre. Altre cose, invece, hanno esperienze: gli animali capaci di movimento attivo, secondo me. Questo è una specie di Rubicone: possiedi oppure non possiedi esperienze. I contenuti dell’esperienza, invece, quelli sì, possono variare, perché dipendono da come è fatto il tuo sistema nervoso e, in generale, dal tuo corpo e dagli eventi che sono avvenuti nella tua vita. Quindi, non solo i contenuti di esperienza di un verme saranno diversi (“diversi”, non inferiori o superiori) da quelli di un essere umano, ma anche quelli di un bambino rispetto a un adulto o quelli di esseri umani diversi. Sono d’accordo, poi, sul fatto che gran parte di quello che guida l’azione sia incosciente. Infatti, questo è esattamente il problema: se riusciamo a fare bene così tante cose con il pilota automatico, che ci sta a fare la coscienza?”
E, allora, che ci sta a fare?
“Ci sono varie ipotesi. La mia è che il movimento attivo abbia condotto con sé il problema di distinguere due varietà della stimolazione, quelle che il filosofo Thomas Reid chiamava sensazione (cosciente) e percezione (non cosciente), come risultato dell’incontro passivo o attivo (legato cioè al movimento dell’animale stesso) con lo stimolo. La mia idea, che richiederebbe un po’ di dettagli tecnici, ridotta all’osso è che la soluzione sia stata quella di un meccanismo di copia efferente conseguente alla risposta allo stimolo e che sia questa “copia carbone” della risposta motoria che fornisce il senso di autorialità alla nostra esperienza (sono io che sento quell’odore o che vedo quel colore, nel senso che sono io che emetto una risposta corporea). A differenza di altri modelli simili, nella mia ipotesi il confronto avverrebbe tra segnali motori anziché tra un segnale motorio e uno sensoriale”.
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