Quando nella vita comune ci poniamo un obiettivo, sappiamo che dobbiamo
sforzarci, concentrarci e fissarci sul problema.
In meditazione questa impostazione non funziona. Non dobbiamo sforzarci
e concentrarci, ma “fare” esattamente il contrario. Smettere di sforzarci e
lasciar essere.
Infatti, nella concentrazione e nello sforzo, noi restringiamo il campo dell’attenzione
e trasformiamo l’obiettivo in un qualunque oggetto da acquisire.
Qui è l’opposto. Non siamo noi che dobbiamo ottenere la meta; dobbiamo
lasciare che la meta (la totalità del sé) ci occupi.
Di solito, di fronte ai problemi, sappiamo come tenderci e concentrarci.
Ma non sappiamo, poi, come fare a mollare la presa.
Ogni sforzo ci allontana: questo è il difficile.
Se voglio ottenere, per esempio, un respiro naturale, non devo
concentrarmi e contrarmi; devo lasciar perdere ogni sforzo e lasciarlo essere.
Più mi sforzo, meno il respiro sarà naturale.
Lo stesso succede con l’acqua di un torrente. Se voglio che sia pura,
non mi metto a costruire argini, dighe o a dragare il fondo, ma devo lasciarla
scorrere naturalmente. Meno la forzo e la costringo, più sarà limpida. L’acqua
che cerchiamo è esattamente quella che c’era in origine, prima che i nostri
sforzi la intorbidassero.
Per l’uomo “normale”, questa operazione risulta difficile, quasi
innaturale, mentre è la naturalezza. Ottenere con sforzi innaturali la
naturalezza è una perfetta contraddizione.
Pensiamo dunque al tipo di atteggiamento che dobbiamo avere in
meditazione. Siamo come individui incaprettati che, più si divincolano, più si
fanno strangolare.
Noi non ci leghiamo con corde, ma con i nostri pensieri, con i nostro
schemi mentali, con le nostre abitudini, con le nostre tendenze abituali. Però,
come diceva un maestro zen all’allievo che si sforzava di ottenere il
risveglio, “per quanto tu lucidi un mattone, questo non potrà mai diventare uno
specchio.”
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