In meditazione, il peccato non è, come nelle
vecchie teologie, una trasgressione di qualche comandamento divino, magari
assurdo o incomprensibile, ma un’azione non salutare che provoca danni a se
stessi e agli altri.
Dobbiamo essere pragmatici, non assolutisti, e
chiederci ogni volta: questa azione aumenta o diminuisce la mia sofferenza, mi
fa star meglio o peggio, contribuisce o meno al miglioramento del mondo?
Lo scopo non è quello di servire qualcuno, ma
di liberare se stessi dai pesi e dai condizionamenti.
La storia biblica di Dio che chiede ad Abramo
di uccidere il figlioletto Isacco o quella di Dio che si accanisce su Giobbe
tanto per metterlo alla prova e
verificare il suo grado di fedeltà, ecco questo è possibile solo in una
cultura in cui Dio viene visto come il Padrone assoluto che può imporre
qualunque azione, anche non salutare e riprovevole sul piano morale, e il
peccato viene considerato disubbidire a questo ordine, anche se è chiaramente
ingiusto.
Il padrone può tutto e tu devi soltanto
ubbidire..?
No, tu sei il padrone di te stesso. Non si
tratta tanto di ubbidire o disubbidire, ma di porsi un problema e di assumersi
una responsabilità.
Non c’è più un riferimento assoluto cui
appellarsi. Ma si tratta di guardarsi dentro e di scegliere il meglio per sé e per gli
altri, in relazione al grado di sofferenza e di disagio che si può alleviare.
Non ci sono più le tavole della Legge. Per
esempio, nel caso dell’omosessualità, non devi domandarti se infrangi un
comandamento, ma se il tuo comportamento provoca danni a te stesso e agli
altri. È tutto un altro discorso.
In un certo senso, il vecchio Dio con i suoi
comandamenti era più comodo: non dovevi porti nessun problema. Adesso sei tu il
responsabile. E ti tocca essere più consapevole.
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