Spiegare la meditazione a
parole è un controsenso. L’uso di un linguaggio dualistico e oggettuale (che
rende ogni cosa un oggetto separato) è un controsenso. I libri, le interviste,
le discussioni, questo stesso blog, sono controsensi.
Con le parole, che dividono,
isolano e separano, non si può spiegare ciò che è unitario. Inevitabile la
contraddizione. Tutto andrebbe detto e scritto fra mille virgolette e con
sottotesti. Come dicono nello zen, il dito che indica la luna non va confuso
con la luna.
Fin dall’origine si è
chiarito che lo stato che cerchiamo è al di là delle parole, al di là delle
definizioni, al di là dei concetti.
Sarebbe meglio starsene
zitti e raccolti. Come facciamo a descrivere con suoni un’esperienza di
silenzio?
Ma, nella confusione che
deriva dall’uso delle parole, nate per de-finire (e quindi uccidere) lo
spirito, può nascere qualche intuizione, qualche richiamo, qualche barlume di
comprensione Chissà mai. Tutti incominciamo così.
Le parole, nate per comunicare,
sono poi i più grandi ostacoli ad una comprensione profonda del senso unitario
delle cose.
“Colui che conosce la
felicità del brahman, dal quale recedono le parole e che non è conseguibile
mediante il pensiero, costui non teme nessuna cosa” [Taittiriya Upanishad], non
si tormenta con le idee di bene e di male e si libera dal dualismo.
Proviamo, dunque, a stare in
silenzio – di parole e di pensieri – in questo mondo tormentato dalle parole e
dai concetti. Proprio questa è meditazione.
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