Dobbiamo ammettere che la nostra presenza è sempre intermittente. Ci sono un sacco di buchi, di vuoti, in cui perdiamo il ricordo di noi stessi, del nostro stesso essere. Per esempio, nel sonno profondo è come se scomparissimo. Sappiamo di essere una persona solo nello stato di veglia. Ma anche qui ci sono parecchi intervalli. La coscienza ha una struttura discreta, non continua. Provate a girare lo sguardo qua e là. Vedrete tante cose, ma perderete il contatto con voi stessi.
Anzi, la coscienza stessa, la coscienza piena, è una rarità. Se non ci fosse la memoria, in tanti momenti non sapreste chi siete. Come in certe malattie del cervello, quando ci si dimentica di chi siamo. Ma anche tra un pensiero e l’altro c’è una piccola pausa in cui non pensiamo a noi stessi.
D’altronde, quando siamo nati, non sapevamo chi eravamo. La coscienza di essere è emersa a poco a poco. E si è consolidata in qualche modo. Ora sappiamo di essere, ma non sempre lo siamo o ci dimentichiamo di essere.
Eppure, nonostante questi vuoti, c’è come un testimone che non si smarrisce. È quello che ci fa risvegliare dopo un sonno profondo, è quello che ci tiene uniti quando non pensiamo a noi stessi.
Quando pensiamo ai nostri problemi o a qualcosa, in quel momento
non pensiamo a noi stessi. Ma lo siamo. C’è qualcosa che mantiene la
continuità, che non ci fa smarrire. È ciò che possiamo chiamare “io sono” o Sé.
Non è la coscienza di essere questo o quello. Ma la consapevolezza di essere al
di là dei vuoti e dei buchi.
L’esercizio di meditazione più importante è ricordarci di questo
“io sono”, è ritornare alla consapevolezza di base.
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