Siamo così
estranei a noi stessi che non sappiamo dare risposta al koan di fondo, al vero
koan, al koan dei koan, ossia alla domanda: "Che cos'è questo? Che cos'è
questo momento? Chi sono io in questo momento? Come mi sento? Qual è la mia
esperienza adesso? Riesco a cogliere la mia consapevolezza?" Il che
equivale a domandarsi anche il senso di quel che si vive.
Sembra facile,
ma non lo è.
Non dobbiamo
rispondere con le parole: "Sto bene, sto male, sto così così, ecc.";
queste sono espressioni generiche che non si riferiscono fedelmente
all'esperienza: la descrivono ma non la colgono.
L'esperienza di
questo momento può solo essere percepita direttamente,
con i sensi, con il cuore, con l'intuito, con la mente; senza la mediazione di
parole o di concetti.
Solo io posso
sapere "che cos'è questo?", solo la mia esperienza può sapere ciò che
percepisco in questo momento. Se lo esprimo con le parole, subito lo interpreto
e lo deformo. La risposta è la percezione diretta, non la parola che la
interpreta.
Ma la percezione
diretta è difficile, perché è anticipata da troppe categorie mentali.
Questo tipo di
consapevolezza o di presenza mentale è l'esercizio fondamentale della
meditazione, un esercizio che tutti possiamo provare.
Se riuscite a
"rispondere" cogliendo la nuda esperienza, questo vi dà attimi di
illuminazione.
Eseguite
l'esercizio quando avete la mente fresca, altrimenti o non riuscirete a
rispondere o darete semplici interpretazioni. E vi renderete conto che noi
siamo così confusi e alienati che non sappiamo neppure che cos'è questo
istante.
Figuriamoci
quando parliamo di Dio o di realtà ultima. Parole, concetti, astrazioni - non
realtà.
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