Ogni tanto fantastichiamo
su esperienze straordinarie, come quelle dei mistici, con estasi,
illuminazioni, visioni di Dio, angeli, il paradiso, ecc. Ma ciò che cerchiamo è
più simile ad uno spazio vuoto.
Se tutto si può
sperimentare, come si fa ad avere l’esperienza dello spazio vuoto?
Qui ci troviamo a disagio, perché non
è neppure un processo di acquisizione. Non possiamo toccare né vedere né
gustare né udire… come si fa a percepire uno spazio vuoto?
Se ci troviamo in una stanza vuota e
all’improvviso la svuotiamo di tutto, quello che rimane è lo spazio vuoto. E
possiamo percepirlo. Ma se togliamo anche le pareti, che cosa sperimentiamo?
È chiaro che ci avviciniamo a questa
esperienza solo svuotandoci a nostra volta, facendoci vuoti – vuoti di
sensazioni, di pensieri, di volizioni, ecc.
Ma non è facile. Tutte le nostre
esperienze sono basate sull’acquisizione di qualche dato, e qui dobbiamo
annullare proprio il processo di acquisizione.
È un problema che si pone quando, per
esempio, ci svegliamo prima del previsto. Vorremmo continuare a dormire. Ma se
facciamo sforzi, se ci imponiamo di riaddormentarci, se ci mettiamo a pensare o
darci ordini, la mente si sveglierà del tutto e non ce la faremo.
In realtà dobbiamo lasciarci andare,
rilassarci, smettere di produrre atti di volizione e abbandonarci al flusso del
processo naturale.
Non siamo noi che conduciamo il
gioco, non è il nostro io.
Lo stesso vale per la meditazione.
Dobbiamo approfittare delle condizioni naturali e lasciarci trasportare.
Questo esercizio non è fine a se
stesso (non è che il vuoto sia così interessante). Serve invece a prendere le
distanze da ciò che crediamo di essere, da quel “pieno” con cui identifichiamo il
nostro io.
In effetti, intorno a quell’io, c’è
un vuoto che lo circonda, lo permea e lo permette. Ed è qui che percepiamo l’allargamento
dell’io ristretto.
Ora non possiamo più puntare il dito
e dire: “Io sono quello, io non sono che quello!”
Io sono molto
più ampio perché comprendo anche lo spazio intorno e dentro.
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