domenica 12 giugno 2016

La quiete dell'io

Quando proviamo uno stato d’animo predominante, pensiamo: “Io sono triste… io sono arrabbiato… io sono felice… io sono impaurito, ecc.” E tutto ciò implica l’idea “io sono.”
Ma questo “io” è un’aggiunta della mente, una deduzione, non un’esperienza.
In realtà, se stessimo attenti, dovremmo dire: “Ecco, ora c’è uno stato d’animo di tristezza… di rabbia… di felicità… di paura, ecc.”. E lasciar perdere la deduzione sull’io.
L’io è un’attribuzione teorica, un’etichetta, un semplice concetto della mente. Ma dov’è l’esperienza dell’io? La diamo solo per scontata. Deduciamo che tutte queste esperienze siano fatte da un unico soggetto, che però non riusciamo a identificare.
È come mettere insieme, in un’indagine di polizia, una serie di indizi concludendo che l’assassino è Tizio, salvo poi scoprire che è Caio o che non c’è affatto perché il morto si è suicidato.
Oppure è come attribuire il nome “automobile” ad un insieme di parti meccaniche, salvo poi accorgersi che, se togliamo ad una ad una queste parti, non troviamo mai l’ “automobile.”
Una verifica? Quando non c’è uno stato d’animo predominante, quando siamo sereni e in pace, dov’è l’io?
La conclusione logica si indebolisce e la necessità di un io si fa meno impellente o addirittura inesistente. Però noi viviamo lo stesso, anzi stiamo meglio, perché non abbiamo un’esigenza di difesa, di delimitazione e di identificazione.
Uno stato d’animo è come un’onda che appare, s’ingrossa e dopo un po’ scompare. Ma, quando non ci sono onde, il mare è calmo e in noi riverbera una sensazione di infinito.
Esiste dunque una relazione fra agitazione-confusione e necessità di un io e, viceversa, fra quiete e liberazione dalle strettoie egoiche.

Un uomo calmo e rilassato è un uomo libero, senza io.

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