Quando proviamo uno stato d’animo
predominante, pensiamo: “Io sono triste… io sono arrabbiato… io sono felice… io
sono impaurito, ecc.” E tutto ciò implica l’idea “io sono.”
Ma questo “io” è un’aggiunta della
mente, una deduzione, non un’esperienza.
In realtà, se stessimo attenti,
dovremmo dire: “Ecco, ora c’è uno stato d’animo di tristezza… di rabbia… di
felicità… di paura, ecc.”. E lasciar perdere la deduzione sull’io.
L’io è un’attribuzione teorica,
un’etichetta, un semplice concetto della mente. Ma dov’è l’esperienza dell’io?
La diamo solo per scontata. Deduciamo che tutte queste esperienze siano fatte
da un unico soggetto, che però non riusciamo a identificare.
È come mettere insieme, in un’indagine
di polizia, una serie di indizi concludendo che l’assassino è Tizio, salvo poi
scoprire che è Caio o che non c’è affatto perché il morto si è suicidato.
Oppure è come attribuire il nome “automobile”
ad un insieme di parti meccaniche, salvo poi accorgersi che, se togliamo ad una
ad una queste parti, non troviamo mai l’ “automobile.”
Una verifica? Quando non c’è uno
stato d’animo predominante, quando siamo sereni e in pace, dov’è l’io?
La conclusione logica si indebolisce
e la necessità di un io si fa meno impellente o addirittura inesistente. Però
noi viviamo lo stesso, anzi stiamo meglio, perché non abbiamo un’esigenza di
difesa, di delimitazione e di identificazione.
Uno stato d’animo è come un’onda che
appare, s’ingrossa e dopo un po’ scompare. Ma, quando non ci sono onde, il mare
è calmo e in noi riverbera una sensazione di infinito.
Esiste dunque una relazione fra
agitazione-confusione e necessità di un io e, viceversa, fra quiete e
liberazione dalle strettoie egoiche.
Un uomo calmo e rilassato è un uomo
libero, senza io.
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