giovedì 30 giugno 2016

Il linguaggio dei mistici

Quando Gesù dice: “Io e il Padre mio siamo una sola cosa,” usa il linguaggio dei mistici. Non vuol dire che lassù in cielo c’è un Paparino e quaggiù il figlio, così come hanno interpretato le menti limitate.
Vuol dire che ogni uomo ha in sé il divino.
È lo stesso linguaggio che utilizzarono altri mistici, in Occidente e in Oriente. Per esempio, le Upanishad sostengono che “tu” (ogni essere umano) “è Quello” (il divino); oppure san Giovanni della Croce dice che “il centro dell’anima è Dio.”
Ed è lo stesso linguaggio che usa il Buddha quando afferma che non esiste un sé separato, perché ogni essere è unito al Tutto.
La scoperta è sempre la stessa. Tutto è uno. Guarda dentro di te, al di là delle separazioni, delle divisioni e delle distinzioni, e vedrai che la tua essenza è l’essenza universale, che l’atman è il brahman.

In linguaggio buddhista si direbbe: “Guarda dentro di te e scopri che tu stesso sei il Buddha, che tu hai la stessa natura del Buddha. Non si tratta dunque di adorare o di interpellare qualcosa di esterno, ma si tratta di saper guardar, al di là dell’identificazione con l’io-mente, ciò che è già dentro di te, ciò che tu sei già, anche se te ne sei dimenticato.

Dio come Supermente

Il concetto di “Dio” e tutte le sue rappresentazioni nelle varie religioni non sono che tentativi maldestri e infantili di circoscrivere nella razionalità qualcosa che potremmo anche chiamare “assoluto,” “incondizionato,”  “realtà ultima,” o “trascendenza.”
Ma l’assoluto resta al di là della portata della mente, altrimenti non sarebbe trascendenza, altrimenti sarebbe solo una specie di superuomo o di supermente. Il che non è, perché vediamo bene che non risponde alle nostre categorie duali e al nostro principio di non-contraddizione.
Se quindi è al di là della mente, non può essere conosciuto con i nostri abituali strumenti mentali e con i nostri concetti.

In conclusione, se Dio è una brutta copia della trascendenza, la preghiera è una brutta copia della meditazione… una spirituaità che ha capito che, se vogliamo trovare la verità-realtà, la mente va esclusa dalla ricerca.

mercoledì 29 giugno 2016

Fuggire la noia

Nelle nostre società, fuggire la noia sembra un imperativo categorico. Rimanere qualche minuto o qualche ora senza far niente, senza impegni, sembra uno spreco del nostro tempo.
Per evitare questa condizione, abbiamo inventato ogni genere di passatempo e di divertimento: radio, televisione, computer, cellulari, cinema, chiacchiere, balli, viaggi, feste, libri, giochi… Dobbiamo ad ogni costo riempire il vuoto. Ne parlava già Pascal.
In meditazione ragioniamo diversamente. Non si tratta di fuggire la noia o gli altri stati d’animo che giudichiamo negativi, cercando di cancellarli con i loro contrari. Questo è il solito gioco circolare. Ma si tratta di accettare il fatto che la realtà non può sempre essere piacevole.
Prendiamo dunque coscienza dell’ineliminabilità degli stati d’animo negativi e, anziché cercare di fuggirli con manovre di negazione, di evasione o di evitamento, osserviamoli apparire, permanere per un po’ e poi sparire.
Questa presa di coscienza ci permette di non assumere un semplice atteggiamento repressivo che finirà per farli penetrare sempre più a fondo. Osservarli bene, guardarli in faccia. Questa è la realtà delle cose: l’impermanenza, la dialettica e la ciclicità.
Il piacevole e lo spiacevole, la felicità e la sofferenza, non esistono da soli, ma sono complementare gli uni agli altri.
Tutti cerchiamo la felicità. Ma dobbiamo sapere che può esistere solo in rapporto al suo contrario.
In realtà, la strategia meditativa non si limita ad assistere inerte, ma svolge una funzione omeostatica di riequilibratura: riesce a ridurre le oscillazioni degli stati emotivi, riportandoli verso il giusto mezzo equanime.
Per quanto riguarda la noia, cercare di riempire il vuoto è chiaramente impossibile in un mondo che è fatto di vuoto. Proprio il vuoto sembra essere la natura ultima.

Tanto vale prenderne atto, cercando di sfruttarlo per meditare, ossia per volgere l’attenzione a questo substrato onnipresente di tutto, sostanziato di calma e silenzio. 

martedì 28 giugno 2016

L'atteggiamento meditativo

Lo scopo della vita è volgere l’attenzione alle forme, ai colori, ai movimenti, ai suoni, alle multiforme attività che s’intrecciano dappertutto e, quindi, identificarsi con le sensazioni, le emozioni, gli stati d’animo che si alternano di continuo… in un gioco che non si ferma mai, tant’è vero che in Oriente si parla di samsara, la ruota che gira, la ruota di nascita e morte.
Ma ecco l’idea della meditazione: volgere l’attenzione non a ciò che è esterno e neppure solo all’interno, ma a ciò che sta sullo sfondo, a ciò che se ne sta immobile, a ciò che sta in silenzio, a ciò che rimane calmo.
Dall’agitazione-eccitazione dell’esistenza alla tranquillità, al silenzio, al non-condizionato e, dunque, alla non-mente.
Sembra un’operazione contro natura.
Perché non farsi trascinare negli innumerevoli giochi di azione e reazione, di causa ed effetto, e mettersi ad osservare la scena come se ne fossimo al di fuori?

Ovviamente, per non essere uno dei tanti animali che vivono in questo modo, per non stare al gioco scontato della vita e della morte, ma per contemplarlo, osservarlo e studiarlo, in modo da trovare il luogo da cui nasce ogni condizione – l’incondizionato, il segreto della vita.

lunedì 27 giugno 2016

Osservare e distaccarsi

Non dobbiamo cercare di diventare o acquisire qualcosa, posta comunque nel futuro, ma dobbiamo immergerci ora, in questo momento, in ciò che proviamo e siamo.
Questa è la differenza tra la mente comune, diretta dal desiderio, dall’insoddisfazione, dall’avversione, dalla paura e dalla reattività istintiva, e la mente meditativa che osserva questo panorama mutevole e se ne distacca.
Osservare e distaccarsi è l’operazione della meditazione. Che assicura chiarezza mentale e saggezza.

Non dobbiamo dividerci interiormente, non siamo in guerra contro le forze del male, non dobbiamo combattere contro qualcuno.
Dobbiamo semplicemente contemplare la pace dentro di noi. Dobbiamo rilassarci, non tenderci.
Il nostro scopo non è conquistare o acquisire qualcosa che non ci appartiene. Ci che cerchiamo lo abbiamo già dentro di noi.

Dobbiamo osservare ciò che accade in noi ed estrarre la tranquillità.

domenica 26 giugno 2016

Attivare la saggezza

A differenza delle religioni teiste, in cui ci si affida a una divinità, a profeti, a libri sacri e a chiese, nella meditazione ci si affida alle proprie forze, ossia alle forze della natura che ci guidano e ci vogliono attenti, svegli e consapevoli.
Qui non si tratta di chiedere la protezione di qualcuno, umano o divino che sia, ma di mettere in campo la
propria saggezza, che è in realtà la sapienza del mondo.
         Sapienza non significa possedere nozioni e avere una cultura (che comunque non guasta), ma conoscere i moti fondamentali del proprio animo (gli stati d’animo e le reazioni relative) che variano di continuo in relazione ai vari eventi.
Esiste una saggezza dell’universo che si riflette nella saggezza della mente, la quale viene messa in moto dalla nostra consapevolezza o presenza mentale.
Questa continua consapevolezza di ciò che ci passa dentro, favorita dal raccoglimento della meditazione, ci permette di non agire più a casaccio, sospinti dai soliti impulsi di paura, avidità, odio, ansia, dubbio, rivalità, ecc., ma di operare appunto con saggezza, con equilibrio, con presenza mentale e con efficacia.

La meditazione, pur attivata dal singolo, vuole scoprire una sapienza che non è una divinità, un idolo da adorare, ma una immensa forza impersonale, la stessa che ha modellato l’universo e che è sempre presente nel fondo di ciascuno di noi.

Cercare la perfezione

Se cerchiamo la perfezione in un mondo imperfetto, saremo certamente delusi: l’amore perfetto, il lavoro perfetto, il maestro perfetto, la felicità perfetta, ecc… tutto quaggiù è imperfetto e instabile. Anche la pace, anche l’illuminazione.
Tutto è imperfetto perché tutto è mutevole. Se fosse possibile trovare qualcosa di non mutevole, non sarebbe che la morte. Che cos’è infatti la morte se non la fissità, la non mutevolezza?

La perfezione non produce più niente, è la fine di tutto. Se ci facciamo caso, anche i fiori più belli nascono dalla terra e dal concime. E durano poco.

sabato 25 giugno 2016

La paura e la sicurezza

Gli individui e i popoli cercano sicurezza, e, naturalmente, ne trovano ben poca, perché tutto nel mondo è incerto. Ma questo ci dice che tutti viviamo nella paura: paura di ammalarci, di perdere i beni e la vita stessa, di amare e di non amare, di non essere amati, di essere traditi, di invecchiare, di essere aggrediti, di fallire, ecc.
Inutile cercare di sfuggire all’incertezza e alla paura, che rimangono sempre nel profondo, pronte a balzare fuori e a travolgerci.
Invece di cercare affannosamente la sicurezza, tanto vale, allora, guardare in faccia questi stati d’animo negativi, che non possono essere eliminati.
Ciò che può essere eliminato è il nostro vano e disperato attaccamento alla sicurezza e, in realtà, a tutte le instabili condizioni mortali.
La presenza mentale ci porta nell’unico luogo in cui non c’è né paura né insicurezza, il luogo in cui non c’è neppure un io che soffra.


La profonda presenza mentale

Quando parliamo di presenza mentale, sembra che l’unico metodo sia quello di essere consapevoli giorno e notte. Ma la meditazione, presentata in questa forma, sembra essere una via per estendere il dominio della razionalità, per togliere ogni ombra alla luce.
Non è che,  in una prima fase, questo percorso sia sbagliato.
Però la dimensione della mente non basta. Bisogna in realtà vedere in che cosa sia incastonata questa presenza mentale, perché ciò che noi chiamiamo “mente” non è semplicemente il potere di un soggetto osservante, ma l’intero campo soggetto-oggetto.
In altri termini, la mente non è la funzione di un io, ma qualcosa che comprende sia l’io sia tutto ciò che lo circonda e lo compenetra.

La presenza mentale scopre anche il non-io, ovvero l’impersonalità del tutto.

venerdì 24 giugno 2016

Fede e ricerca personale

La maggior parte delle religioni consiste in un sistema di principi e dogmi in cui credere. Fondamentali sono poi la presenza di una personalità di riferimento (il profeta) che farebbe da tramite fra Dio e gli uomini e di un libro sacro.
Il tutto viene presentato come qualcosa in cui si deve aver fede.
Quello che non viene mai contemplato è il dubbio. Dubitare non è consentito, non fa parte della mentalità religiosa.
Invece, la vera spiritualità nasce dal dubbio. Sorprende quindi l’atteggiamento del Buddha, i quale sostiene che prima di accettare qualche verità, qualche tradizione o qualche autorità, bisogna verificarla di persona.
Anche se il buddhismo è stato a sua volta trasformato in una religione in cui credere, resta l’unico passo in avanti rispetto alle religioni fideistiche.
Come sosteneva Krishnamurti, quando ci si afferra alle tradizioni, la mente è già in decadenza.


L'importanza dell'osservatore

Che la nostra realtà sia un’illusione non ci sono dubbi. Ma lo è anche l’idea che ci sia una realtà in sé o che sia possibile conoscere la realtà così com’è.
La realtà non esiste in sé, perché è sempre relativa a chi la osserva.
Se non ci fosse nessun osservatore, cioè nessuna coscienza, non ci sarebbe niente. O, comunque, ci sarebbe qualcosa priva di interesse.

Resta il fatto che anche la nostra distinzione fra osservatore e osservato è una deformazione mentale.

Fattispecie giuridico-religiose

I religiosi che giurano e spergiurano che la loro religione è fondata, voluta e sostenuta direttamente da Dio… casi di “millantato credito.”

Cui seguono inevitabilmente casi di “traffico di influenze illecite.”

giovedì 23 giugno 2016

Il desiderio di vita

Osservata con freddezza, l’esistenza appare un’assurdità senza senso. Si nasce, si cresce, si invecchia e si muore. Tutti uguali. Tutti senza sapere perché. Tutti trascinati da una forza cieca.
Un’onda si leva dal mare, s’ingrossa, diminuisce e alla fine viene riassorbita nella vasta distesa dell’acqua. E non importa che sia grande o piccola, piena di furia o placida. Il percorso è segnato.
Certo, ognuno ha la propria individualità e le proprie possibilità e ci saranno i più fortunati e i meno fortunati, i ricchi e i poveri, i potenti e i deboli. Ma nessuno sfugge allo schema generale, nessuno può evitare malattie, delusioni, vecchiaia, sofferenze e morte.
Qualcuno, riferendosi alla possibilità per gli omosessuali di adottare figli, dice: “Volere un figlio è un atto di egoismo”. E, in effetti, lo è sempre, anche per le coppie “normali.”
Ma la vita è fatta per non pensarci troppo. È qualcosa di istintivo e di ripetitivo.
Se ci si ferma a pensare, non si mette più al mondo nessuno. C’è una forza che domina l’universo e che vuole la riproduzione della vita. E, a questo scopo, non ricorre certo alla ragione, ma all’allettamento dei sensi, all’egocentrismo, all’euforia, all’estro sessuale.
Quando ci si innamora e si concepisce un figlio, non lo si fa certo per un calcolo mentale. Ci si lascia piuttosto guidare dall’istinto. Più che di egoismo, dovremmo parlare di incoscienza o di non coscienza. E su questo si basa la vita più ruspante.
Quando perciò ci si ferma a riflettere e si osserva con distacco il quadro intero – come succede nei saggi e negli illuminati – inevitabilmente si ferma il ciclo vitale e non ci si riproduce più. O ci si riproduce molto meno.
È questo che succede nei popoli più sviluppati, dove decresce la natalità. Non a caso i popoli che si riproducono di più sono quelli più arretrati e ignoranti.
Quand’è che si vive con più intensità? Tutti risponderebbero che è quando ci si affida all’istinto, all’emozione e alla passione. Non certo quando si riflette.

Ma resta il fatto che anche questo progressivo raffreddamento, questo distacco critico e sensuale, è un processo voluto dalla natura – un passo avanti, non un passo indietro. Una fase evolutiva più matura.

mercoledì 22 giugno 2016

Nuovi mondi

Quando Cristoforo Colombo intraprese il suo viaggio, si rendeva conto di rischiare: non sapeva né che cosa avrebbe trovato né se l’avrebbe trovato. Che cosa lo spingeva se non l’aspirazione umana a trovare nuovi mondi?
Oggi che la Terra è stata tutta esplorata, ci rivolgiamo inevitabilmente allo spazio cosmico, sempre spinti da quell’insopprimibile istinto.
Ma non è finita. Non ci sono solo i viaggi esteriori, ci sono anche i viaggi interiori.
In Occidente, regioni dello spazio interiore sono state scoperte da Freud e da Jung.

In Oriente, da migliaia di anni, i grandi esploratori dell’interiorità, come i rishi vedici o il Buddha, hanno scoperto altre regioni. Ma siamo solo all’inizio di un’esplorazione che ci porterà a scoprire nuove dimensioni dell’universo.

I pellegrini dell'illusione

Un pullman di pellegrini friulani, diretto in Polonia, è stato coinvolto in un incidente stradale. Risultato: 46 feriti di cui quattro gravi.
Che cosa ci vuole per convincere gli uomini che pregare gli dei non è mai servito a niente? Purtroppo, il desiderio di avere qualche protettore divino è più forte di ogni razionalità.
Nei vari pellegrinaggi, i feriti e i morti sono senza dubbio più numerosi dei presunti miracoli.
Gli uomini si illudono di poter pensare e di poter aver rapporti con la divinità, nelle sue varie forme. Credono che la loro mente possa comprendere la realtà ultima.
Non capiscono che proprio questa pretesa, la loro stessa mente, è l’ostacolo.
Togliete l’ostacolo, togliete la mente, con i suoi falsi dei, e ritroverete il contatto con la realtà ultima.

Togliete di mezzo la mente, togliete di mezzo i vostri io. Questo è l’unico vero pellegrinaggio.

martedì 21 giugno 2016

Il campionato dell'identificazione

In questi giorni, in Europa, molti sostenitori si identificano con una squadra di calcio e tifano per quella. Soffrono quando perde, esultano quando vince.
A causa si questa identificazione, arrivano perfino a picchiarsi fra di loro.
Non dico che il gioco del calcio sia stupido. Ma perché fare il tifo per una squadra? Non ci si gode meglio il gioco e non si è più obiettivi quando si guardano, senza passioni, senza pregiudizi, senza deformazioni psicologiche, altre squadre che si affrontano?
Lo stesso discorso vale per tutte le nostre identificazioni, compresa quella con la religione, con la famiglia e con il nostro io.
Quando ci identifichiamo irrazionalmente con qualcosa, immediatamente ci attacchiamo e diventiamo dei bruti e degli idioti. Regrediamo.
L’atteggiamento giusto è quello degli scienziati, che osservano, studiano e danno giudizi equilibrati.

Identificazione, identità, passionalità e parzialità vanno di pari passo.
L'identificazione non ci permette di conoscere come stanno le cose, dal calcio ai misteri dell'universo.

Il problema di Dio

Il problema di Dio è quello che presto avremo anche noi uomini con i robot: costruire esseri del tutto dipendenti e condizionati, ma incapaci di far del male, o esseri indipendenti e autonomi, capaci di nuocere coscientemente?

Dio però non ha fatto questa scelta. Gli uomini non sono affatto indipendenti, incondizionati e autonomi. Pesa su di loro un passato lungo e barbarico.

L'esperienza dell'incondizionato

Ogni tanto fantastichiamo su esperienze straordinarie, come quelle dei mistici, con estasi, illuminazioni, visioni di Dio, angeli, il paradiso, ecc. Ma ciò che cerchiamo è più simile ad uno spazio vuoto.
Se tutto si può sperimentare, come si fa ad avere l’esperienza dello spazio vuoto?
Qui ci troviamo a disagio, perché non è neppure un processo di acquisizione. Non possiamo toccare né vedere né gustare né udire… come si fa a percepire uno spazio vuoto?
Se ci troviamo in una stanza vuota e all’improvviso la svuotiamo di tutto, quello che rimane è lo spazio vuoto. E possiamo percepirlo. Ma se togliamo anche le pareti, che cosa sperimentiamo?
È chiaro che ci avviciniamo a questa esperienza solo svuotandoci a nostra volta, facendoci vuoti – vuoti di sensazioni, di pensieri, di volizioni, ecc.
Ma non è facile. Tutte le nostre esperienze sono basate sull’acquisizione di qualche dato, e qui dobbiamo annullare proprio il processo di acquisizione.
È un problema che si pone quando, per esempio, ci svegliamo prima del previsto. Vorremmo continuare a dormire. Ma se facciamo sforzi, se ci imponiamo di riaddormentarci, se ci mettiamo a pensare o darci ordini, la mente si sveglierà del tutto e non ce la faremo.
In realtà dobbiamo lasciarci andare, rilassarci, smettere di produrre atti di volizione e abbandonarci al flusso del processo naturale.
Non siamo noi che conduciamo il gioco, non è il nostro io.
Lo stesso vale per la meditazione. Dobbiamo approfittare delle condizioni naturali e lasciarci trasportare.
Questo esercizio non è fine a se stesso (non è che il vuoto sia così interessante). Serve invece a prendere le distanze da ciò che crediamo di essere, da quel “pieno” con cui identifichiamo il nostro io.
In effetti, intorno a quell’io, c’è un vuoto che lo circonda, lo permea e lo permette. Ed è qui che percepiamo l’allargamento dell’io ristretto.
Ora non possiamo più puntare il dito e dire: “Io sono quello, io non sono che quello!”
Io sono molto più ampio perché comprendo anche lo spazio intorno e dentro.



lunedì 20 giugno 2016

L'odio religioso

Ci chiediamo come mai un individuo religioso, che dovrebbe essere pieno di amore e di rispetto verso tutti, possa diventare un fanatico capace di odiare e perfino di uccidere chi non la pensa come lui.
Il problema è che, quando una persona trova un po’ di sicurezza, di pace e di gioia in una religione, vorrebbe estendere questo suo sentimento a tutti gli altri.
“Come fanno a non accogliere la bellezza di questo messaggio? Andiamo a convertirli!”
Così incomincia a sentirsi contrariato quando gli altri non lo ascoltano, lo deridono, trovano fastidiosa la sua predicazione o sposano altre idee. “Com’è possibile?”
Infine, si sente minacciato dalle idee o dai dubbi altrui. “Infedeli!”

In breve la sua pace se ne va e al suo posto nasce l’odio.

L'amore universale

È facile amare tutti in astratto finché restiamo seduti da soli nella nostra stanza.
Ma, poi, quando usciamo in strada e dobbiamo affrontare le persone in carne ed ossa, con le loro antipatie, le loro minacce e la loro o la nostra avversione, è un altro paio di maniche.
L’amore universale si squaglia come neve al sole.

Ma in realtà non dobbiamo amare chi troviamo antipatico. Dobbiamo non indulgere nella critica e nell’avversione. Ed essere consapevoli della comune umanità... nonostante tutto, nonostante le differenze.

Scrivere e pensare

Dobbiamo scrivere con determinazione, rapidità, sincerità, direttamente, senza dar tempo alla grammatica, alla sintassi e alle belle frasi fatte di introdurre l’ornamentale, il superfluo, l’artificiale e, soprattutto, i soliti schemi logici che ci riportano a seguire i vecchi solchi della retorica, delle associazioni scontate e dei percorsi predefiniti. Così, non saremo mai originali.
Non dobbiamo pensare a come scrivere, ma a che cosa scrivere; e scriverlo con il minor numero di parole.
Ma, a pensarci bene, lo stesso vale per il pensare.

Dobbiamo stare a stretto contatto con l’intuizione della realtà.

domenica 19 giugno 2016

La realtà della sofferenza

Quando vediamo con chiarezza la realtà della sofferenza che tocca tutti, quando capiamo che nessuno può sfuggire al dolore, allora guardiamo noi stessi e gli esseri viventi con altri occhi.
Vediamo sui loro volti le amarezze, le sconfitte, le delusioni, le difficoltà, le durezze inevitabili.

Tante piccole o grandi rughe lasciate dal vomere della vita che non risparmia nessuno. E proviamo una grande pena – ciò che il buddhismo chiama “compassione.”

Le difficoltà della concentrazione

Sembra facile trovare la concentrazione. Ma non lo è, perché si tratta di trovare uno spazio di verità e di realtà.
Finché fuggo, finché cerco ciò che non è in questo momento, finché cerco di far durare il piacevole e di evitare lo spiacevole, non sono affatto sul pezzo e, quindi, non posso essere concentrato.
Ci sono mille modi per non essere presenti, per evadere, per indulgere o per evitare, per non collimare con la realtà. Mai qui e ora.

Siamo concentrati quando affrontiamo ogni esperienza, senza scegliere e senza escludere.

L'unica certezza

Se ad un certo punto divento consapevole che tutto ciò che faccio e dico, che tutto ciò che sono, che il mio stesso sé e che tutto quel che mi circonda è instabile e impermanente, in quel momento colgo qualcosa: colgo ciò che è.
Non si tratta di qualcosa di solido e di fisso, ma di permanente sì. Mi pongo comunque nella verità e nella realtà.
Questo è il mio punto riferimento, ciò che non varia al variare di tutto il resto.
Ho trovato un punto di permanenza in mezzo all’impermanenza.

Ora, tutto può essere valutato alla luce di questa certezza.

sabato 18 giugno 2016

La rete infinita

In questo mondo, in cui è già difficile ascoltare veramente o a fondo gli altri, è ancora più difficile ascoltare se stessi. Così siamo dei perfetti estranei, agli altri e a noi stessi. “Monadi senza porte e senza finestre.”
Ascoltare non significa aprire gli orecchi: questo possono farlo tutti. Significa stare attenti a ciò che accade, al di là delle parole, dei pensieri e degli stati d’animo.
Ascoltiamo per esempio i nostri desideri. Guardiamo da dove sorgono e dove finiscono.
Sorgono, ci influenzano e scompaiono – continuamente. Cosa c’era prima e cosa rimane dopo?
I buddhisti dicono il vuoto.

Io direi una catena infinita di azioni e reazioni che non riusciamo a risalire. Una catena che ci lega in una rete immensa.

L'illusione del bene

Un’altra illusione radicata è che basti essere buoni per meritarsi una ricompensa in questa vita o nell’aldilà. Il che implicherebbe che la legge che domina il mondo sia di tipo etico. Ma non risulta. Risulta, invece, che sia una legge dell’equilibrio, in base alla quale bene e male devono compensarsi nell’insieme (non a livello individuale), come yin e yang.
Sbagliata è l’idea che ci sia un Dio del bene che premi chi si comporta bene. Se ci fosse un Principio del genere, lo si vedrebbe già in azione. Ma neppure questo risulta. Risultano invece leggi evolutive per cui il più debole e il meno adattato viene spazzato via senza la minima pietà.
Comportarsi bene ha però un vantaggio rispetto alla coscienza. Permette infatti di conservare la calma e l’equilibrio dentro di sé, cosa che si perde se si scatenano conflitti interiori.
Ma, ovviamente, tutto dipende dai valori della coscienza individuale. Se uno ritenesse che sia giusto uccidere qualcuno, e lo uccidesse, non proverebbe nessun conflitto interiore.
La verità è che bene e male sono concetti solo umani. Per l’Uno universale, per il Tutto o per Dio (se esistesse), i due principi non sono contraddittori, ma complementari e relativi l’uno all’altro.

Non è dunque la bontà ciò che ci salva, ma il livello di consapevolezza.

venerdì 17 giugno 2016

L'amore condizionante e l'amore liberante

Se un altro fosse responsabile della nostra felicità, potrebbe anche, in ogni momento, privarcene. Non avremmo dunque in mano il bandolo della matassa: ce l’avrebbe sempre l’altro.
È solo questa la possibilità della felicità umana, quanto mai incerta e mutevole? O c’è una felicità che non dipende più dalle relazioni che abbiamo con gli altri, ma da quelle che abbiamo con noi stessi? Da un diverso rapporto con noi stessi?

Eliminare innanzitutto le dipendenze da qualsiasi essere umano o Padreterno, poi le presunzioni dell’io che si crede un Padreterno.

Esploratori dello spirito

Noi vorremmo prima di tutto capire razionalmente o avere chiare indicazioni, magari una teoria completa e particolareggiata, sulla via da seguire, così come si presenta per esempio il percorso buddhista in otto passi; ma la verità è che dobbiamo procedere da soli in una terra sconosciuta e senza mappe a portata di mano.
L’unica cosa su cui possiamo contare è la forza e la determinazione della nostra stessa mente, nonché il fatto che tanti ci abbiano già provato. Sappiamo in ogni caso che questo sarà il prossimo passo evolutivo.
Per andare avanti, là dove nessuno è mai arrivato, è necessario sbarazzarsi di ogni peso, di ogni cosa e nozione inutile, lasciarsi tutto alle spalle, tagliare con coraggio i ponti e partire, così come fece Cristoforo Colombo.
La meditazione è più un liberarsi e un lasciar cadere che trascinarsi appresso zaini pieni di teorie, principi  e precetti.

È uno svuotare la mente dal sapere acquisito per vedere con chiarezza la nuova terra. Anche Colombo dovette andare avanti non pensando più a ciò che aveva lasciato alle spalle.

giovedì 16 giugno 2016

L'identità più profonda

Siamo abituati a pensare che questo corpo e questa mente siano di nostra proprietà, siano il nostro “io”. Ma chi sarebbe il soggetto di questa proprietà? L’io sarebbe proprietario di se stesso?
Certo, la mia gamba e il mio dente sono di mia proprietà; e, se mi togliessero la gamba e il dente, io rimarrei lo stesso.
Però, fino a che punto potrei togliermi parti rimanendo me stesso? Ovviamente, fino al cervello-mente. Tolto questo non c’è più nessun proprietario e nessun io.
Dunque, il proprietario-io sarebbe il cervello-mente.
Purtroppo, questa proprietà-identità è quanto mai instabile e temporanea. Nel sogno, nella demenza e nella morte dove va a finire?
Se io sono, lo sono per poco. Allora, chi si impossessa di chi?
Più che una proprietà, sembra un’appropriazione indebita. Sembra che qualcuno s’impossessi di qualcosa che in realtà non gli appartiene. Qualcosa preso a prestito. Un prestito temporaneo.

È come essere proprietari di qualcosa che ad un certo punto cambierà proprietario. Peccato che si tratti di ciò che riteniamo la nostra identità più profonda. Qualcosa di molto intimo che, tuttavia, non ci appartiene veramente.

L'integralismo

Pare che l’assassino di Orlando, quello che ha ucciso 49 persone in una discoteca per omosessuali, fosse egli stesso omosessuale. Omosessuale e fanatico musulmano: un mix esplosivo.
Da tempo la psicologia ci spiega che spesso questi nemici degli omosessuali siano in realtà omosessuali repressi, omosessuali che odiano gli altri omosessuali perché non accettano la propria omosessualità. Puniscono gli altri per punire se stessi.
Se poi sono fanatici religiosi, sono sicuramente individui pericolosi, perché odiano tutti coloro che non la pensano come loro o non si comportano come loro.
Resta il fatto che queste persone sono sorrette da odio e avversione, e che non potranno cambiare finché non prenderanno coscienza di ciò che si agita dentro di loro. Non c’è modo di migliorare la situazione di ignoranza della mente di tanti uomini se in tutti non viene introdotta una pratica di autoconoscenza e se non si stigmatizzano le religioni di massa per quello che sono: ideologie buone per chi non ha un’anima, per chi non ha un’autocoscienza.

L’integralismo, il fondamentalismo e il fanatismo sono malattie mentali, anzi malattie dell’anima, e, come tali, vanno trattati.

mercoledì 15 giugno 2016

La consapevolezza delle sensazioni

Tutti ovviamente vorremmo conservare e prolungare le esperienze piacevoli e accorciare ed eliminare quelle spiacevoli. Così facendo, però, oscilliamo continuamente tra attaccamento e avversione, senza poter controllare il meccanismo.
Qui entra in campo la tecnologia della coscienza (la meditazione), che ci invita ad essere consapevoli innanzitutto delle sensazioni: “Questa è una sensazione piacevole… Questa è una sensazioni spiacevole…”.
L’esercizio consiste nel restare il più possibile concentrati su tale consapevolezza, anziché reagire nel solito modo. In altri termini, non dobbiamo oscillare tra la speranza (che il piacere si prolunghi) e la paura (che il malessere prosegua). E non dobbiamo intervenire in tal senso.
Dobbiamo aver chiara la distinzione fra “essere consapevoli di” e la sensazione o lo stato d’animo. Nello spazio tra i due momenti dobbiamo inserire un cuneo in cui non vi è più aderenza alla sensazione, ma solo alla consapevolezza.
Questo spazio, nel caso di sensazioni spiacevoli, non è spiacevole.
Dunque, attraverso questo cuneo di distacco, possiamo educare la mente a non seguire le tendenze abituali di attaccamento (alla piacevolezza) e di avversione (alla spiacevolezza). E qui troviamo uno spazio di libertà e di pace.

Ma, per dominare l’intero meccanismo, è necessario eseguire l’esercizio anche con le sensazioni piacevoli. 

martedì 14 giugno 2016

La forza del desiderio

Molti si domandano se, dovendo lottare contro i desideri, non rimarrebbe un’esistenza squallida, vuota e senza senso.
In effetti, non possiamo non nutrire desideri. Anche l’aspirazione al benessere, alla felicità, alla liberazione, al risveglio, all’amore o alla salvezza eterna è pur sempre un desiderio. Anche un vecchio di cento anni ha pur sempre un desiderio, fosse pure quello di vivere un altro giorno. Anche un suicida ha un desiderio, fosse pure quello di por fine alla propria sofferenza.
Il desiderio è dunque la forza della vita. E sarebbe sbagliato cadere nell’ascetismo antico, che consisteva nel privarsi di ogni minimo piacere. Chi lo fa, perde il rapporto naturale con la vita e con il corpo, e diventa uno squilibrato, come furono d'altronde parecchi asceti e mistici.
Il Buddha si sottopose per sei anni alle austerità in uso all’epoca, riducendosi in fin di vita. E, a quel punto, scoprì che quella non era la via giusta e che doveva recuperare l’equilibrio, una giusta via di mezzo tra austerità estreme ed edonismo.
Bisogna avere la saggezza di discriminare tra desideri sani e desideri malati. I primi sono i desideri naturali, i secondi sono i desideri della mente malata e avida, che non smette di volere cose inutili e sempre di più.
Chi rinuncia a inseguire i desideri del consumismo o di una mente perversa, non si trova vuoto. Al contrario, trova appagamento e gioia, oltre a tranquillità, presenza mentale e chiara visione.
Noi percorriamo una via che mira ad una condizione di piacevolezza, seppur di livello superiore ai soliti rozzi piaceri.
Non ci dimentichiamo infatti che non esistono solo i desideri sensuali, ma anche quelli dello spirito, ancora più pericolosi: per esempio l’aspirazione al potere, al predominio, alla supremazia, al comando, alla fama, agli onori sociali, ad essere primi, ai privilegi, ecc. Così ci sono persone che rinunciano al cibo, al sonno, al sesso e che si mettono cilici, ma dentro di loro sono rosi da un atteggiamento di superbia.



lunedì 13 giugno 2016

Il Dio dell'Occidente

Quando Mosè domanda al suo Dio: “Che cosa dirò agli israeliti quando mi chiederanno quale sia il tuo nome?”, Yaweh risponde: “Io sono colui che sono. Di’ loro che ti ha mandato Io-sono!”
Quando poi gli comunica i suoi ordini, i dieci comandamenti, attacca la sua litania: “Io sono il Signore, Dio tuo… E non avrai altro Dio all’infuori di me!”
Sì, questo è proprio il Dio dell’Ocidente.
L’io.
I cristiani credono che un Dio-Persona sia una gran vantaggio per l’uomo. Invece è un Dio che si autolimita e decade.

Non è più l’essere impersonale e imparziale, il fondamento ultimo di tutto. Ma un ego parziale, geloso e tracotante – come tutti gli io.
Dio io.
Io Dio.

La capacità di astrazione

La capacità di astrazione dell’uomo, ossia la capacità di ragionare e di immaginare enti, situazioni ed eventi che esistono solo a livello mentale, è la nostra forza, ciò che ci ha portato ad essere superiori agli altri animali.
Ma è anche il nostro pericolo maggiore, il nostro rischio di follia. Quale animale si sognerebbe di sterminare altri esseri solo perché credono in qualcosa di diverso o in una differente immagine di Dio?
 Nell’uomo succede. In chi non ha consapevolezza della propria mente, si può scatenare in ogni momento un odio feroce contro chi la pensa diversamente.
Un semplice pensiero crea il nemico, l’odio e la guerra.
Ecco perché, invece di insegnare ideologie e religioni, sarebbe meglio insegnare ad osservare gli stati mentali.

Una cultura che insegni il senso critico, anche verso se stessi, non la fede.
La fede può trasformarsi in ogni momento in follia.

La tranquillità di fondo

Se non riusciamo a notare gli stati d’animo predominanti, saranno loro a dettarci legge e a farci muovere in modo automatico.
In effetti, l’unico modo per disinnestarli è diventarne coscienti: “Questa è noia… questa è ansia… questa è depressione… questa è confusione, ecc.”.  
Mentre ne diventiamo consapevoli, creiamo una deviazione, un intervallo che ci permette di spostare l’attenzione dal nostro stato d’animo al fondo stesso della mente, che è sempre calmo.
Qui non c’è bisogno di essere seduti in meditazione. È una presa di coscienza che si può effettuare in qualsiasi momento e in qualsiasi posizione.
In ogni caso, è necessario rafforzare la nostra presa di coscienza ripetendola per un po’ e magari unendola alla consapevolezza del respiro o ad una ripetizione del concetto: “Noia… ansia… depressione… confusione, ecc.”.
Questi stati d’animo inconsci assomigliano a neve che, portata alla luce del sole, finisce per sciogliersi.

Se poi riportiamo alla mente lo stato sottostante calmo, ripetendoci magari: “È già qui, è qua sotto, è sempre qui…”, ripetendo i mantra: “Pace, quiete, tranquillità, ecc.” e ricorrendo ad una respirazione di calma, riusciamo ad ottenere un duplice risultato: disinneschiamo lo stato d’animo negativo e ritroviamo la tranquillità di fondo.
Ricordiamoci che, per quanto questi stati d'animo siano resistenti e antichi, sono comunque abitudini, schemi ripetitivi, semplici costrutti mentali.
E, se la mente crea, la mente può distruggere.

domenica 12 giugno 2016

La quiete dell'io

Quando proviamo uno stato d’animo predominante, pensiamo: “Io sono triste… io sono arrabbiato… io sono felice… io sono impaurito, ecc.” E tutto ciò implica l’idea “io sono.”
Ma questo “io” è un’aggiunta della mente, una deduzione, non un’esperienza.
In realtà, se stessimo attenti, dovremmo dire: “Ecco, ora c’è uno stato d’animo di tristezza… di rabbia… di felicità… di paura, ecc.”. E lasciar perdere la deduzione sull’io.
L’io è un’attribuzione teorica, un’etichetta, un semplice concetto della mente. Ma dov’è l’esperienza dell’io? La diamo solo per scontata. Deduciamo che tutte queste esperienze siano fatte da un unico soggetto, che però non riusciamo a identificare.
È come mettere insieme, in un’indagine di polizia, una serie di indizi concludendo che l’assassino è Tizio, salvo poi scoprire che è Caio o che non c’è affatto perché il morto si è suicidato.
Oppure è come attribuire il nome “automobile” ad un insieme di parti meccaniche, salvo poi accorgersi che, se togliamo ad una ad una queste parti, non troviamo mai l’ “automobile.”
Una verifica? Quando non c’è uno stato d’animo predominante, quando siamo sereni e in pace, dov’è l’io?
La conclusione logica si indebolisce e la necessità di un io si fa meno impellente o addirittura inesistente. Però noi viviamo lo stesso, anzi stiamo meglio, perché non abbiamo un’esigenza di difesa, di delimitazione e di identificazione.
Uno stato d’animo è come un’onda che appare, s’ingrossa e dopo un po’ scompare. Ma, quando non ci sono onde, il mare è calmo e in noi riverbera una sensazione di infinito.
Esiste dunque una relazione fra agitazione-confusione e necessità di un io e, viceversa, fra quiete e liberazione dalle strettoie egoiche.

Un uomo calmo e rilassato è un uomo libero, senza io.

sabato 11 giugno 2016

La consapevolezza di sé

Parlare di meditazione è difficile perché in genere c’è scarsa consapevolezza di sé o una consapevolezza sbagliata di sé. Il senso dell’io è già solidificato e ogni attività (materiale e mentale) è rivolta all’esterno.
La prima mossa da fare sarebbe dunque una conversione dell’attenzione, dal fuori al dentro. Ma, per farlo, è necessario aver presente l’importanza di questa operazione; e i più non ne vedono l’utilità: possono continuare a vivere senza mai prender coscienza di sé.
Anzi, si fa di tutto per non tornare a sé. Le distrazioni, gli svaghi, i passatempi e i divertimenti - il cui scopo è impedire ogni forma di introspezione, ogni contatto con sé - sono infiniti. Il risultato è che le persone sono spesso estranee a se stesse, non sanno chi sono.
I più colti hanno magari qualche nozione di psicologia o di psicoanalisi, ma raramente la applicano a sé. E anche quando si ricorre all’analisi presso i terapeuti o all’autoanalisi, lo si fa per difendere o curare il proprio senso di sé, che è stato ferito.
Quando si ricorre alla meditazione di origine orientale, l’intenzione è quasi sempre la stessa: rafforzare il proprio senso di sé. Infatti, la perdita o l’indebolimento della propria identità è considerata la peggior iattura.
Quando poi si deve affrontare la morte, ecco che ritorna l’idea di salvare il proprio ego, magari sotto forma spirituale. E si immaginano paradisi o divinità che garantiscano questa salvezza.
Ma, intanto, la nostra morte è sicura. Ed è evidente che coinvolge la distruzione sia del corpo sia della coscienza.
Allora bisogna riconsiderare l’intera materia. La lezione della morte ci dice che, prima o poi, bisogna liberarsi di tutto, anche a livello psicologico. Più che difendere il proprio sé, sarebbe meglio prepararsi ad abbandonarlo. A cominciare in primo luogo dall’importanza che attribuiamo al nostro io.
Non si tratta di cadere nel nichilismo (tutto finisce nel nulla), ma neppure nell’eternalismo: il nostro sé è immortale ed eterno.

Teniamo conto che si tratta di concetti della mente – di una mente che sparirà. Se dunque vogliamo tenere i piedi per terra, ricorriamo al buon vecchio metodo della sana meditazione: sospendere il dualismo mentale e rimanere in contatto con la realtà così com’è, senza interpretazioni né voli mentali.

venerdì 10 giugno 2016

Il condizionamento delle passioni

Sappiamo che i desideri, le passioni e le emozioni influenzano le percezioni. Se per esempio sono affamato, guarderò il cibo in maniera diversa da quando sono sazio. Se sono in preda ad un attacco di rabbia, mi rapporterò alle persone e alle situazioni in maniera diversa da quando sono calmo. Se sono innamorato, guarderò una donna in maniera diversa da quando invece non lo sono.
Quest’ultimo esempio ci fa capire che la passione non ci fa vedere le cose obiettivamente.
Dunque, per riuscire a vedere la realtà, è necessario partire da uno stato di calma e di lucidità. Se vogliamo “fare filosofia”, dobbiamo saper prescindere dai nostri desideri, dai nostri pregiudizi e anche dalle nostre emozioni.

Ogni passione distorce la visione. E, quando abbiamo la visione distorta, è inevitabile sbagliare e soffrire.

L'astrattezza della filosofia

Il problema della filosofia è che offre molti argomenti per riflettere sui problemi, ma non offre una via per raggiungere armonia e saggezza nella vita pratica, per orientarci nell’esistenza quotidiana; non ci dà un insieme coerente di norme per indicarci come vivere.
In occidente, i filosofi prima di Socrate (Eraclito, Parmenide, Empedocle, i pitagorici, ecc.) avevano ancora presente questa funzione e cercavano metodi per vivere meglio. Questa è d’altronde la vera sapienza, non spaccare il capello in quattro.
Una filosofia che non si traduca in un metodo per aiutarci nella vita, per darci un orientamento pratico, per combattere la sofferenza e l’errore, è una semplice speculazione astratta, che lascia il tempo che trova.
La mente razionale è utilissima per conoscere le cose, ma non basta per dirci come comportarci di fronte ai problemi della vita.
Per avere questo aiuto, è necessario che una filosofia ci dica come atteggiare la mente nelle varie situazioni. Il che significa che ciò che è più importante non è tanto il ragionamento logico, quanto il saper raggiungere uno stato d’animo e un atteggiamento di distacco, di serenità e di consapevolezza.

A parte gli stoici (Seneca, Epitteto e Marco Aurelio) e i loro seguaci successivi, la filosofia occidentale ha preso strade che l’hanno portata a concludere poco – e soprattutto a non essere utile all’uomo comune.
Bisogna rivolgersi all'Oriente per trovare  filosofia che vogliano cambiarci la vita facendoci diventare saggi.

giovedì 9 giugno 2016

Reagire alle provocazioni

Sono le circostanze che provocano in noi le emozioni; e su queste circostanze non possiamo fare nulla.
Ma il modo in cui reagiamo a queste provocazioni, dipende da noi.
Questo è il punto fondamentale. È necessario però porsi alla porta delle emozioni, là dove incominciano a manifestarsi.
Il nostro compito è rendercene conto, cogliere l’istante del loro arrivo e smontare l’abituale reazione negativa (per esempio l’ira o l’avversione).
È questo meccanismo che cambia il nostro carattere e lo migliora, rendendoci più pazienti, più distaccati e più saggi.

Se non modifichiamo le nostre reazioni, restiamo fuscelli in balia di qualsiasi vento.

Sonno e morte

Qualche volta ci sembra difficile meditare perché siamo stanchi e veniamo presi dalla sonnolenza: gli occhi si chiudono e rischiamo di addormentarci.
Se ci addormentiamo, comunque, non è il caso di preoccuparsi; può darsi che l’organismo abbia bisogno di sonno.
Possiamo però utilizzare questo stato a nostro vantaggio. Innanzitutto osserviamo come non si tratti di una condizione stabile, ma di una necessità psico-fisica che va e viene. Arriva, si manifesta, vuole qualcosa e poi scompare – una specie di ondata. Se resistiamo, ci accorgeremo con meraviglia che passerà. Se non ce la facciamo a resistere, vuol dire che è una necessità naturale.
In ogni caso, possiamo utilizzarla come una meditazione sulla morte.
Tutti vorremmo morire con calma e con consapevolezza, quasi senza soffrire. Ma come ci si prepara? Ecco un’occasione.
In fondo, ogni stato del genere è una specie di anticamera o imitazione della morte.
Notiamo come anche morire possa essere un cedere, un consegnarsi – non del tutto spiacevolmente – ad una forza più grande.
Questo stato di abbassamento della tensione vitale e di appannamento mentale, che arriva come un’ondata, può essere affrontato in due modi: o immergendosi a fondo per poi risalire quando l’ondata sarà passata o lasciarsi trasportare dalla sua stessa forza.
In fondo, la natura sa che cosa sia meglio per noi. E l’ultima parola spetta sempre a lei.
A noi spetta, invece, controllare il nostro stato d’animo.
Anche addormentarsi, se non siamo agitati, se siamo tranquilli, è uno dei piaceri della vita. E forse anche morire.


mercoledì 8 giugno 2016

Fermare la mente

Se qualcuno crede che, per meditare, sia necessario diventare dei filosofi, si sbaglia di grosso. Il pensiero è utilissimo, ma non ti porta all’obiettivo, che è quello di vedere le cose prive di sovrastrutture mentali.
Ci sono stati grandi filosofi che sono finiti pazzi, perché non avevano raggiunto né equilibrio né saggezza.
Infatti, il pensiero può essere l’ostacolo, in quanto interpreta anziché vedere, riveste anziché denudare.
Per meditare, bisogna piuttosto mettere in funzione attenzione, intuizione e presenza mentale.
Stare attenti significa diradare la proliferazione dei pensieri per concentrarsi sull’oggetto, che può essere uno degli strumenti di solito utilizzati (come il respiro) o la nostra stessa consapevolezza.
L’attenzione concentrata agisce come una luce laser, che ci permette di eliminare distrazioni, preoccupazioni e domande inutili.
Più siamo sgombri di pensieri, più riusciamo a vedere con chiarezza.
Dirigere la mente in questo modo è difficile, perché abitualmente è la mente che dirige noi. Anzi, noi ci identifichiamo con la mente-io che può scorrere e divagare come più le piace, saltando incessantemente e dispersivamente da un argomento all’altro. Se facciamo uno sforzo per concentrarla, è più probabile che frapporremo altri pensieri.

Tuttavia, la nostra stessa esperienza ci dice che è possibile. Se per esempio guardiamo distrattamente dalla finestra pensando a mille cose, e all’improvviso la nostra vista è attraversata da un uccello o da un fulmine, in quel momento ogni altro pensiero viene spazzato via e la nostra mente si fa attenta, concentrata e piena di meraviglia.

martedì 7 giugno 2016

Liberarsi dalle etichette

Il mondo in cui viviamo è in gran parte creato dalla mente, la quale attribuisce a gruppi di percezioni e sensazioni un’etichetta, considerandola poi l’espressione di una realtà solida e separata.
Prendiamo il caso di un temporale: in realtà noi percepiamo vento, tuoni, acqua e altri fenomeni, ma non “il temporale.” Il temporale è il nome che diamo a un insieme di esperienze.
Lo stesso vale per il tempo: ci sembra che ci sia qualcosa che scorra dal passato al futuro, ma in realtà noi percepiamo solo attimi presenti – e neppure quelli, dato che anche il presente è un concetto.
Prendiamo infine il nostro io. Noi viviamo innumerevoli esperienze, ma non incontriamo mai “il signor io”. Perché anche questo è un concetto, anzi un’esigenza grammaticale. La sensazione che abbiamo di essere sempre gli stessi è un’idea di questo momento o una convenzione puramente sociale (la carta d’identità). Ma chi ci dice che è reale? Fra un minuto cambierà e non sarà più lo stesso: fra un minuto cambierò e non sarò più lo stesso.
L’idea di non avere un’identità solida e definita ci spaventa. Però pensiamo a quali sforzi e sofferenze siano necessarie per mantenerla in vita. Quante paure…

La liberazione incomincia quando scopriamo che anche l’identità, la vita e la morte non sono che etichette. Che cosa vive? Che cosa muore?

A Cesare e a Dio

Guardiamo che cosa succede in Russia, dove Putin riabilita la religione e la religione appoggia Putin. Qui non c’è niente di spirituale: è una questione di potere. Il dittatore rimette in auge la religione e le riconosce onori e privilegi, e la Chiesa ortodossa riconosce e sostiene il regime.
Non è una novità: Stato e Chiesa si spalleggiano spesso a vicenda. Da noi è successo varie volte: dall’epoca di Costantino, che riconobbe per ragione politiche il cristianesimo, alla storia del fascismo, che firmò con la Chiesa cattolica i Patti Lateranensi, un accordo di ferro in cui i due poteri si sostenevano a vicenda.
Dopo l’ultima guerra, i padri costituenti non seppero cogliere l’occasione per riaffermare una vera laicità dello Stato e ritornarono a riconoscere alla Chiesa privilegi, vantaggi economici e un posto di riguardo nelle istituzioni - una situazione ambigua che si protrae fino ad oggi.
In pratica non sono i fedeli a sostenere la Chiesa – cosa che sarebbe giusta – ma l’intero Stato italiano, che tassa tutti i cittadini per concedere una montagna di soldi alle istituzioni ecclesiastiche.
Ora, non è mai successo che la Chiesa abbia rifiutato questo abbraccio osceno e che abbia detto: “No, i soldi non li voglio, perché voglio mantenere la mia autonomia”.

A dimostrazione che certe religioni di massa seguono le vie del potere politico e quindi della contaminazione per affermare il proprio potere sociale, che non ha niente a che fare né con Dio né con lo spirito.

lunedì 6 giugno 2016

La pace mentale

Sembra che, a detta di tutti, non ci sia stato mentale migliore della pace. Quando qualcuno muore, gli si augura di riposare in pace. E ognuno di noi sostiene che vorrebbe trovare la pace.
Ma è vero?
Scegliere la vita non è certo scegliere la pace. È scegliere il trambusto, l’attivismo, l’emozione, l’eccitazione…
In realtà, di fronte alla pace, siamo come sant’Agostino che pregava: “Dio rendimi casto, ma non ancora”.
Come essere umani, dobbiamo fare ancora molta strada per desiderare veramente la pace; dobbiamo cambiare la scala dei nostri valori, dobbiamo essere capaci di starcene per un po’ concentrati su noi stessi, in modo da comprenderci e comprendere il perché degli avvenimenti.
Se non abbiamo la pace neppure dentro di noi, figuriamoci all’esterno.
Il mondo non soffre certo per un eccesso di pace. E anche noi, non appena troviamo un attimo di pace, ci sentiamo annoiati e pensiamo a che cosa fare di eccitante. Come diceva Pascal, tutta l’infelicità degli uomini viene da una sola cosa: dal non sapersene stare tranquilli in una stanza… a riflettere o semplicemente a starsene in silenzio, facendo tacere pensieri e desideri inopportuni o inutili.

Il condizionamento universale

Quando ci capita qualcosa di molto brutto, ci domandiamo: “Perché proprio a me? Avrò fatto qualcosa di male? Pago qualche colpa?”
Però, quando ci capita qualcosa di molto bello, non ci facciamo le stesse domande.
La verità è che tutte le cose ci capitano in conseguenza di condizioni preesistenti, su cui ormai non possiamo più intervenire. La nostra stessa nascita è dovuta a condizioni preesistenti. Ed evidente che l’universo è un immenso meccanismo di cause ed effetti.
Chi crede in un Dio, non sa spiegare perché gli capitino certe cose molto brutte. Avrà peccato? Perché Dio lo ha voluto o permesso?
Ma se crediamo che esista un responsabile ultimo degli eventi, e non abbiamo fatto nulla di male, è chiaro che restiamo spiazzati. “Perché a me?” E non possiamo fare proprio nulla, se non pregare e implorare la Volontà ultima.
Se invece pensiamo che il mondo sia un gigantesco complesso di cause ed effetti, e se noi stessi ne siamo il prodotto, forse qualcosa possiamo fare, almeno per il futuro. Possiamo assumere quegli atteggiamenti e quelle decisioni che influenzino la catena delle cause e degli effetti, in modo da volgerle a nostro favore. Non dobbiamo pregare un’Autorità superiore per avere protezione.
Dobbiamo capire e agire noi stessi per cambiare le condizioni.


domenica 5 giugno 2016

La malattia e la medicina

Quando il Buddha afferma che tutto è sofferenza, non intende dire che passiamo tutto il nostro tempo a star male. Se fosse così, la vita si sarebbe estinta da un pezzo.
In realtà, nel termine da lui usato, dukkha, rientrano anche le esperienze piacevoli, perché anche queste risultano alla fine insoddisfacenti. Dukkha significa che tutte le esperienze, belle e brutte, portano alla sofferenza, perché nascono all’insegna della mutevolezza, dell’imperfezione, della limitazione e della tensione.
La vita è come una corrente elettrica che, per quanto a basso voltaggio, ha sempre una certa tensione, un certo stress.
La tensione consuma, brucia; è come una febbre. Anche nelle esperienze migliori, ci troviamo in uno stato febbrile.
È chiaro che, di fronte alla malattia, all’invecchiamento e alla morte, non possiamo che soffrire. Ma soffriamo anche quando siamo uniti a ciò che non ci piace, quando siamo separati da ciò che ci piace, quando non otteniamo ciò che vogliamo e anche quando l’esperienza piacevole finisce o muta. D’altronde, essere immersi nel tempo significa che nulla può durare a lungo e che tutto deve cambiare.
Questo è il carattere insoddisfacente, deludente, frustrante e stressante della vita.
Non si tratta di un articolo di fede, ma di un’esperienza che tutti potrebbero fare… se solo fossero capaci di staccarsi per un momento da ciò che fanno e di osservare la natura del reale.
Purtroppo, molte persone non sono neppure capaci di compiere questo piccolo passo, questa presa di distanza, questa semplice osservazione, perché sono completamente immerse nel proprio vivere e non si fermano mai a investigare e a porsi domande. Anzi, sono tutte protese a cercare di rimediare a stati negativi come la paura, l’ira, l’odio, l’ansia, la frustrazione, la solitudine, la gelosia, l’invidia, ecc.

In tal modo, non percependo la tensione e l’insoddisfazione, non sono in grado di pensare ad una medicina, ad una soluzione definitiva delle loro sofferenze. Continuano a cercare di rimediare agli stati spiacevoli sostituendoli con stati piacevoli, senza rendersi conto che il veleno è presente anche in questi ultimi.