Il nostro problema è che
crediamo di sapere chi siamo: abbiamo una precisa immagine di noi stessi, come
la foto di una carta d’identità. “Questo sono io” diciamo.
Sentiamo di
essere quella persona, nata il…, figlia di…, che ha vissuto a…, che ha tot anni…,
che ha studiato a…, che ha fatto quelle esperienze, ecc.
Ma è proprio questa convinzione
che ci chiude in uno spazio angusto, dove poi ci sentiamo imprigionati.
Sentirsi individui è
sentirsi ingabbiati.
Ma proviamo per qualche
attimo a dimenticarci tutto, a non pensarci, a non identificarci con quella persona. Che cosa rimane?
Qualcosa rimane, perché non
è che spariamo all’improvviso.
Quello che rimane è una pura
presenza e quello che scompare è la vecchia identificazione con l’io della
carta d’identità.
Il modo in cui pensiamo di
essere, il modo in cui siamo convinti di essere, è la nostra identificazione,
cioè la nostra identità empirica.
Però un’identità di questo
genere è chiaramente un costrutto mentale, dunque qualcosa che può essere
cambiato o soppresso.
Ed è la meditazione, con la
sua sospensione dell’identificazione tradizionale, che ci toglie questa
ingessatura e ci permette di ritrovare lo spazio più ampio in cui era incastonata
la vecchia identità.
Che cosa proviamo? Non ci
sentiamo più liberi?
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