Possiamo coltivare stati d’animo
che il buddhismo definisce “divini” non perché discendano da qualche dio, ma
perché sono il meglio di quanto possa produrre l’essere umano.
Sono la gentilezza
amorevole, la compassione, la gioia compartecipe e l’equanimità.
Nella nostra civiltà, la
gentilezza non è neppure considerata una virtù. Noi parliamo retoricamente di
amore e trascuriamo questa gentilezza, che è un atteggiamento più semplice, ma
anche più fattivo. C’è gente che ama, senza essere gentile. Ma perché “amorevole”?
Perché non si tratta di una
gentilezza formale e fredda, la gentilezza di un gentleman o la gentilezza dell’etichetta
e della buona educazione; si tratta piuttosto di un’espressione dell’amore e
della carità. Essere gentili, con gli altri e
con se stessi, significa portare un sostegno e un sentimento di calore e di
riguardo a qualcuno che magari non se l’aspetta, che si aspetta la solita
durezza o indifferenza. La persona gentile diffonde uno stato d’animo di
sorpresa positiva, di fiducia nel genere umano, di sollievo, di conforto.
Quando siete gentili, l’altro vi risponde con un “grazie” che è sua volta un’apertura
del cuore.
La compassione è la virtù
principale del buddhismo, in quanto nasce da una riflessione sulla sofferenza
umana e sul bisogno che hanno tutti di evitare il dolore e di essere felici. È
quindi una virtù meditativa, prodotta non dall’istinto o dalla natura, ma da un
atteggiamento di comprensione. Chi è compassionevole ha capito le necessità
dell’essere umano e ha compreso meditativamente che negli uomini esiste una natura
fondamentale che è uguale per tutti. Stesse esigenze, stesse sofferenze e
stesse gioie. Il compassionevole riesce a mettersi nei panni altrui, ha una
spiccata sensibilità, capisce il prossimo.
La gioia compartecipe ne è
una naturale conseguenza. Di solito gli uomini vivono in competizione fra loro,
sono invidiosi dei successi altrui o addirittura gioiscono delle sventure che
capitano a certe persone.
Si tratta di un
atteggiamento non facile. Si tratta di essere felici della felicità altrui. È
un po’ un atteggiamento materno o paterno: quello di un genitore ideale (non affatto
comune a tutti i genitori) che vuole che il figlio sia felice e autonomo.
L’equanimità è una capacità
di omeostasi, la capacità di non farsi travolgere né dall’entusiasmo né dallo
scoraggiamento, di tener ferma la barra della psiche mentre si susseguono
piaceri e dolori, successi e sconfitte, fatti piacevoli e fatti spiacevoli. È
la virtù dell’equilibrio, della calma.
Per la nostra società,
essere equilibrati e calmi non è neppure considerata una virtù. Noi esaltiamo
la passionalità, il tifo, la fede cieca, l’emotività, la parzialità, la
faziosità… con i risultati che vediamo.
Nessuno di questi stati d’animo
ci viene fornito su un piatto d’argento, né scende dal cielo. Ma è il prodotto di un lavoro
meditativo, che ci fa vedere come simili atteggiamenti siano “convenienti” non
solo per favorire un’armonia generale anche per la nostra stessa felicità.
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