venerdì 11 gennaio 2019

Il suono del silenzio


Abbiamo talmente paura di ascoltare noi stessi, di entrare in comunicazione con noi stessi e di sapere chi siamo che ci circondiamo di ogni tipo di rumore. Qui la parola “rumore” non indica solo il suono fisico (musica, radio, chiacchiere, ecc.) ma anche ogni genere di distrazione (giocare, viaggiare, guardare la tv, consultare i cellulari, fare shopping, ecc.). In tal modo allontaniamo il più possibile la possibilità di stare soli.
E, anche quando restiamo soli, ecco che la nostra mente si trasforma in una specie di cinema in cui si accavallano pensieri, immagini, fantasie, ricordi, previsioni, ecc. Sì, anche l’attività della mente serve a distrarci.
Ma, così facendo, fuggiamo continuamente da noi stessi, viviamo da alienati. Non sappiamo chi siamo e non sappiamo quale sia la nostra vocazione.
Perché ognuno ha la sua vocazione. E non sapere quale sia la nostra ci fa commettere errori di ogni tipo.
Se dunque il rumore serve a portarci fuori, ad alienarci, il silenzio serve a connetterci con noi stessi, con il nostro io più profondo, e a trovare la nostra strada, il senso della nostra vita.
È da qui che parte ogni esigenza e ogni forma di meditazione – dal silenzio interiore. Se incominciate a cercare e a trovare un po’ di silenzio interiore, qualunque cosa facciate, state già meditando.

4 commenti:

  1. Gentile Lamparelli,
    lei dice che "ognuno ha la sua vocazione"; parla del "nostro io più profondo" e del "senso della nostra vita"... Potrebbe chiarire meglio questi concetti, e spiegare come essi si collegano? Ringraziandola anticipatamente per un'eventuale risposta, le porgo cordiali saluti...

    RispondiElimina
  2. Siamo tutti diversi e ognuno ha una propria vocazione, intendendo con questa parola ciò per cui siamo fatti, quell’attività senza la quale ci sentiamo insoddisfatti e felici. Non si tratta di una vocazione solo spirituale, ma qualunque attività: artistica, commerciale, lavorativa, ecc. Ognuno è portato per qualcosa, ma non è detto che lo faccia. Se uno è portato per la musica, ma fa il commercialista non sarà felice. Se uno vuole aprire un negozio, ma fa l’impiegato, non sarà felice. Se uno vuole viaggiare, ma è costretto a stare fermo in un posto, sarà infelice. E così via.
    Naturalmente per sapere quale sia questa vocazione, dobbiamo conoscere noi stessi non superficialmente, ma profondamente. E non tutti si conoscono. Seguono abitudini imposte da altri o consigli altrui. Indossano maschere non autentiche. Ce ne vuole per capire quale sia la nostra strada. Dobbiamo quindi scendere nel fondo di noi stessi e domandarci quali siano le nostre capacità. Che cosa vorremmo veramente fare? Che cosa ci rende soddisfatti e felici?
    Questo significa anche capire il senso della nostra vita. Solo quando ubbidiremo alla nostra vocazione, sentiremo che non abbiamo sprecato la nostra occasione, la nostra vita.

    RispondiElimina
  3. Lei sa benissimo che ci sono miliardi di individui che non riescono a capire e a seguire la propria vocazione… Sono dannati e condannati? Sarebbe una scorciatoia spirituale, a proposito della quale le feci una domanda tempo fa, affidarsi alla realizzazione del vero Sé, ovvero l'occhio del ciclone o la posizione del Testimone distaccato, o la condizione di chi non si identifica più con il corpo e con la mente?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Chi non individua la propria vocazione, semplicemente spreca l’occasione della propria vita e sarò infelice. Perché lo scopo della vita è proprio questo: trovare e realizzare se stessi nell’interdipendenza universale. Dice un proverbio ebraico: “Se io non sarò me stesso, chi lo sarà per me? E, se non ora, quando?”
      Ma realizzare se stessi non significa sviluppare un ego ipertrofico. Significa al contrario spogliarsi di tutte le mode e artificialità, puntare alla propria essenza – un nucleo che potrà eventualmente sopravviverci dopo la morte del corpo e della mente - ed aiutare gli altri a liberarsi di falsi miti.

      Elimina