L’umanità
soffre di una grave malattia mentale, che potremmo chiamare “ego-concentrazione”.
Ego-concentrazione
non nel senso di egoismo (sarebbe il meno), ma di non riuscire a vedere al di
là del proprio ego, come se fossimo chiusi un piccolo spazio – la rana nel
pozzo dell’aneddoto zen.
Gli
esseri umani sono pazzi non solo perché credono che Dio sia sceso sulla Terra o
che Maometto sia volato sulla Luna, o perché costruiscono armi atomiche che
possono distruggere il mondo intero, o perché stanno segando il ramo su cui
vivono, ma perché non riescono a vedere la propria follia: non riescono ad
uscire dal proprio sé e salire su un gradino più in alto.
Sono
immersi, immedesimati, nel proprio delirio, nelle proprie convinzioni, nelle
loro fedi, nelle proprie opinioni. Hanno sempre una visione ristretta al proprio
ego.
La
via della guarigione è una sola: l’autoconsapevolezza: riuscire ad uscire dal
proprio sé per guardarsi dal di fuori.
Questo sarebbe in realtà il profondo messaggio dei grandi saggi, un messaggio che però è stato
rimpicciolito e sminuito dall’idea dell’amore, dall’idea che il rimedio sia
amare il prossimo. Come se bastasse amare per uscire dal proprio delirio, come
se bastasse amare per veder chiaro, come se l’amore non fosse a sua volta un
delirio proiettivo.
Dunque,
è questa la pratica fondamentale della meditazione che si propone come terapia:
conoscere, osservare, stare attenti, prendere le distanze dal proprio ego.
Meditazione
è riuscire a guardarsi, come se si guardasse dall’esterno i degenti di un ospedale
psichiatrico.
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