È incredibile quanta consapevolezza possa avere
l’uomo della propria morte. Che in un medico, per esempio, diventa certezza.
“Questa è la fine, avrò poche ore o pochi gorni…” Un attimo è lì che predispone
il testamento e un attimo dopo è morto. Può anche farci delle battute di
spirito e decidere che cosa farà del suo corpo.
Nessun altro essere vivente ha questa
consapevolezza. E non si sa se è un vantaggio o no. Resta il fatto che questo è
il prezzo da pagare all’evoluzione: una paura, un’angoscia che non dipendono da
pericoli transitori, ma proprio dal possesso della consapevolezza della morte.
Ora, il problema per noi uomini è come
convivere con una consapevolezza che, essendo più elevata di quella degli altri
animali, deve fare i conti con un’angoscia più forte.
In meditazione usiamo sia la presenza mentale
(ogni momento, ogni ente muore e passa) sia la consapevolezza della morte
finale per uscire dalle nostre illusioni e dalle nostre elaborazioni mentali e
per avvicinarci il più possibile alla realtà.
Un tempo, i buddhisti mandavano i loro giovani
a meditare nei cimiteri e nei campi di cremazione. Ma non c’è bisogno di
ricorrere a questi estremi. La morte, nostra o altrui, ci sfiora di continuo ed
è sempre possibile riflettere su di essa.
Noi di solito facciamo il contrario: cerchiamo
di non pensarci. Ma non è una buona politica, in quanto, così facendo,
ingigantiamo la paura inconscia.
Pensare e abituarsi alla morte è un
addestramento che dura tutta la vita. Si tratta di una meditazione che non deve
spaventarci, ma serve a toglierci inutili illusioni e ambizioni e a darci
quindi le giuste dimensioni della vita e del nostro io. Platone sosteneva che
lo scopo della filosofia era far sì che si potesse morire con serenità.
Per noi, la meditazione sulla morte è un modo
sicuro per uscire dalle nebbie della mente e mantenerci in rapporto con il
mondo reale, senza venirne terrorizzati.
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