giovedì 10 novembre 2016

La meditazione della morte

È incredibile quanta consapevolezza possa avere l’uomo della propria morte. Che in un medico, per esempio, diventa certezza. “Questa è la fine, avrò poche ore o pochi gorni…” Un attimo è lì che predispone il testamento e un attimo dopo è morto. Può anche farci delle battute di spirito e decidere che cosa farà del suo corpo.
Nessun altro essere vivente ha questa consapevolezza. E non si sa se è un vantaggio o no. Resta il fatto che questo è il prezzo da pagare all’evoluzione: una paura, un’angoscia che non dipendono da pericoli transitori, ma proprio dal possesso della consapevolezza della morte.
Ora, il problema per noi uomini è come convivere con una consapevolezza che, essendo più elevata di quella degli altri animali, deve fare i conti con un’angoscia più forte.
In meditazione usiamo sia la presenza mentale (ogni momento, ogni ente muore e passa) sia la consapevolezza della morte finale per uscire dalle nostre illusioni e dalle nostre elaborazioni mentali e per avvicinarci il più possibile alla realtà.
Un tempo, i buddhisti mandavano i loro giovani a meditare nei cimiteri e nei campi di cremazione. Ma non c’è bisogno di ricorrere a questi estremi. La morte, nostra o altrui, ci sfiora di continuo ed è sempre possibile riflettere su di essa.
Noi di solito facciamo il contrario: cerchiamo di non pensarci. Ma non è una buona politica, in quanto, così facendo, ingigantiamo la paura inconscia.
Pensare e abituarsi alla morte è un addestramento che dura tutta la vita. Si tratta di una meditazione che non deve spaventarci, ma serve a toglierci inutili illusioni e ambizioni e a darci quindi le giuste dimensioni della vita e del nostro io. Platone sosteneva che lo scopo della filosofia era far sì che si potesse morire con serenità.

Per noi, la meditazione sulla morte è un modo sicuro per uscire dalle nebbie della mente e mantenerci in rapporto con il mondo reale, senza venirne terrorizzati.

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