Essere pianta
L’indagine filosofica
sulla vita degli alberi per ripensare il rapporto tra umani e mondo vegetale.
Fabrizio Baldassarri è Fellow al Warburg Institute e Villa I
Tatti (Harvard University). Ha lavorato sulla filosofia naturale e la medicina
di René Descartes, e sulla filosofia delle piante nel Rinascimento e nel
Seicento. Tra le sue pubblicazioni recenti, ha curato volumi su Andrea
Cesalpino, le piante nella medicina rinascimentale e la medicina in Descartes.
“Io volevo parlarti del sentimento che qualche volta ho di essere io
stesso Pianta, una Pianta che pensa, ma non distingue i suoi diversi poteri, la
forma delle sue forze e la sua posizione dal suo luogo”. In quel breve
componimento pastorale che è il Dialogo dell’albero (1943),
Paul Valery ci presenta la vita delle piante in una prospettiva inusuale.
Seguendo le parole di Lucrezio a Titiro, infatti, le piante pensano, meditano
(“si quelqu’un médite au monde, c’est la Plante”), ma non in modo
semplicemente passivo. Secondo il Lucrezio del dialogo, le piante non sono un
semplice oggetto che riceve la vita, ma uno strano incrocio di pulsioni vitali.
Detto in altri termini, le piante vivono attivamente, e in questo senso non
sono oggetti, ma protagoniste del regno vivente. Di più, sono costruttrici
della natura.
L’intuizione di questo dialogo rivela una
tesi inconsueta. Solitamente siamo portati a considerare le piante come cose o
meri oggetti a nostro uso e consumo: nel dibattito pubblico in televisione e
sui giornali prevale quest’idea.
Lo pensano anche i nostri politici più illuminati, quelli cioè che vogliono
aumentare in qualche modo il verde urbano e usano le piante come oggetti per
abbellire le città, per rinfrescare i quartieri, per colorare il grigio del
cemento, o anche per trasformare in ossigeno l’anidride carbonica che
produciamo. Non c’è dubbio che questi aspetti siano importanti in sé, e
certamente decisivi per
vivere in città migliori. Tuttavia, vi è un punto problematico: queste
concezioni si nutrono dello stereotipo delle piante come oggetti a nostra
disposizione, come se bastasse piantare un albero per ridurre la CO2
nell’ambiente, in una continua contrapposizione tra la città, il giardino
(spesso cementificato) e il bosco, ovvero lo spazio “altro” dalla città.
Non è così, e liberarsi di questo
stereotipo, così come ristrutturare la distanza tra città e natura/bosco è un
passaggio necessario, ancora lontano dall’essere compiuto. In una prospettiva
ecologica vera e propria non basta piantare nuovi alberi per risolvere la crisi
climatica o per migliorare la qualità dell’aria, anche se certamente aiuta. La
realtà della natura è di fatto più complessa e le piante non sono semplici
oggetti da utilizzare, sfruttare e spostare a piacimento, a nostro uso e
consumo, perché la natura stessa non lo è. Occorre abbandonare questa
concezione e costruire una prospettiva diversa, e per farlo è necessario
partire da un aspetto preciso: se le piante non sono oggetti, allora sono soggetti della
natura, e in quanto tali vanno considerate. Per comprendere questo aspetto,
come indicano i personaggi del dialogo di Valery, occorre ri-comprendere che
cosa è un albero e che cosa caratterizza la vita vegetale, in una prospettiva
che rimetta al centro della natura le piante in loro stesse in quanto soggetti.
Secondo Lucrezio le piante non sono un semplice oggetto
che riceve passivamente la vita, ma uno strano incrocio di pulsioni attive.
Da questo punto di vista, negli ultimi
decenni schiere di scienziati hanno cominciato a
lavorare con più attenzione a ridefinire le attività vegetali, cercando di
stabilire, attraverso esperimenti in laboratorio e trials, alcuni aspetti dell’enorme complessità della
vita delle piante, che è spesso irriducibile alla definizione antropocentrica
della vita. La concezione antropocentrica della natura contiene infatti una
serie di conseguenze logiche problematiche e sbagliate, a partire dalla
convinzione che l’essere umano sia padrone e dominatore della natura. Se questa
convinzione si è formata completamente tra il Rinascimento e il Seicento, ha
acquisito una valenza etica, sociale, politica ed economica solo con la logica
di sfruttamento capitalistico, che ha fatto della natura un oggetto per il
nostro benessere. Questa logica riguarda non solo le regole economiche ma anche
quelle ambientali, perché ha portato a compimento la rottura del rapporto tra
essere umano e resto della natura, facendo del primo il dominatore della
seconda, e la seconda l’oggetto a disposizione del primo.
Ma c’è di più. Per esempio, all’interno di
questa prospettiva, la distinzione tra ambiente e paesaggio, cioè tra natura
incontaminata e natura trasformata dagli umani, è venuta meno, perché tutta la
natura è al servizio dell’essere umano e questi può costruire (o anche
“creare”) la natura da sé. In questa visione, l’idea dominante è che le piante
non sono altro che oggetti nelle mani dell’essere umano, e non esseri viventi
in loro stessi, allo stesso modo in cui gli animali sono solamente corpi da
sfruttare in laboratorio o negli allevamenti intensivi. Rimettere al centro
della natura le piante per rovesciare questa prospettiva è anche un modo per
ripensare l’ecologia: secondo numerosi studiosi, il passaggio necessario per edificare una nuova coscienza ambientale è
proprio quello di comprendere meglio in che cosa consiste la vita delle piante.
L’interpretazione della vita delle piante
intreccia però almeno tre discorsi diversi, in primo luogo quello scientifico
relativo al comportamento delle piante. Poi quello filosofico della definizione
delle piante come soggetto autonomo, come indicato per esempio da Francis Hallé
nel suo In difesa dell’albero (2022). Infine quello etico, che
riguarda la costruzione di una società nuova e di un ambiente in cui l’essere
umano non sia all’apice della piramide, padrone e dominatore di una natura da
sfruttare in modo illimitato. Questi tre discorsi devono essere collegati tra
di loro, perché a partire dalla consapevolezza della vita delle piante è
possibile ripensare le ragioni ecologiche e ambientali in modo più adeguato
alla realtà delle cose.
Aristotele restringe la vita delle piante a mera
stanzialità, di fatto non diversa dalla fissità minerale.
Come si diceva, occorre cambiare
prospettiva sulla vita delle piante, cioè sul rapporto tra piante ed esseri
viventi, che non è finalizzato alla sola vita degli esseri umani. È pertanto
cruciale abbandonare la prospettiva antropocentrica che regola l’analogia
pianta-animale, utilizzata dagli scienziati fin dall’antichità per spiegare le
funzioni vegetali, dalla sensazione all’intelligenza delle piante, passando per
la sessualità vegetale. Questa riduzione antropomorfica non rende merito della
diversità delle piante stesse, perché continua a reificarle. La via da
percorrere è quella di considerare la radicale alterità delle piante rispetto
alla vita animale, espandendo al regno vegetale la riflessione filosofica di
Jacques Derrida sul concetto di alterità presente ne L’animale che
dunque non sono (2002). Sulla scia della denuncia derridiana dell’uso
delle metafore animali per descrivere esseri umani stupidi o folli (la radice
della parola francese bêtise è bête, “bestia”),
Derrita applica questa stessa lettura al caso delle piante. Commentando il
famoso passo della metafisica di Aristotele in cui il filosofo greco aveva
paragonato quell’essere umano che rifiuta di ragionare e che non rispetta i
fondamenti logici a una mera pianta, Derrida rileva la prospettiva antropomorfa
nell’interpretazione aristotelica della vita vegetale come minoritaria.
Nella sua costruzione metafisica,
Aristotele aveva attribuito un rilievo ontologico all’interpretazione antica,
ravvivata da Platone, della metafora dell’uomo come albero rovesciato, che
permane fino all’Ottocento. Se ancora in Platone, come ribadisce Luciana Repici
nel suo Uomini capovolti (2000), questa metafora ha una
valenza identitaria, che rivela cioè l’identità di tutta la natura, sulla scia
di Aristotele l’analogia animale-pianta è utilizzata per ridurre o diminuire in
senso deteriore le facoltà delle piante. Aristotele pone pertanto una
distinzione fondamentale tra piante (natura) e esseri animali (umani e non
umani), là dove i presocratici individuavano una continuità di tutta la natura,
e lo fa restringendo la vita delle piante a mera stanzialità, di fatto non
diversa dalla fissità minerale. Le piante vegetano, cioè stanno fisse e per
questo hanno meno vita. Aristotele fonda una metafisica della distinzione e della
separazione, che si muove nella direzione cristiana dell’uomo padrone e
dominatore della natura stessa.
Se questa linea interpretativa di una
differenza tra piante e animali è dominante nel corso dei secoli, e costruisce
una metafisica della natura sulla distinzione e separazione tra i regni al cui
apice della scala naturale sta l’essere umano, l’idea presocratica di una unità
tra animali e piante resta sottotraccia nella cultura europea. Nel corso del
Rinascimento, diversi autori ripetono l’interpretazione platonica delle piante
come uomini capovolti, sottolineando un’unitarietà vitale e naturale che la
distinzione aristotelico-scolastica aveva distrutto. In molti casi, si pensi
alla teoria delle segnature secondo cui la somiglianza tra un vegetale e una parte
del corpo animale indicherebbe un legame terapeutico tra i due corpi, questa
identità si mantiene però ridotta agli usi più o meno segreti delle piante, che
sono ancora considerate meri oggetti da sfruttare.
L’idea presocratica di un’unità tra animali e piante è
rimasta a lungo sottotraccia nella cultura europea.
Alcuni autori del Seicento, tra cui il
filosofo britannico Francis Bacon, il filosofo e botanico francese Guy de La
Brosse, il medico inglese Nehemiah Grew e l’anatomista italiano Marcello Malpighi,
per fare alcuni esempi, hanno cercato di studiare le piante come esseri a sé,
senza seguire una antropomorfizzazione delle facoltà vegetali. Il tentativo di
questi autori è stato quello di ristabilire, accanto alla complessità della
vita vegetale, l’unità e la mescolanza tra le diverse forme naturali,
ricostruendo un’unità della natura e studiando le piante in loro stesse. Più
recentemente, l’indagine scientifica si è intrecciata con la comprensione
filosofica dell’identità e della radicale differenza delle piante, cioè con la
definizione dell’alterità della vita delle piante. Questa radicale differenza,
mostra una prospettiva che è cruciale per ogni premura ambientale, perché le
piante sono unite al mondo, cioè alla natura, lo costruiscono e decostruiscono
in una unità fondamentale: “this is a blue planet, but a green world”,
ha scritto il botanico Karl Niklas. La scienza delle piante è una scienza del
legame elementare tra vita e natura e la costruzione di quest’ultima, cioè la
costruzione dell’ambiente. Dentro questa unità, infatti, stanno non solo tutte
le piante e la natura, ma anche gli animali umani e non umani. Ed è proprio
questa unità, o questa mescolanza, a permettere di comprendere che cosa è il
mondo e come agire eticamente in esso.
L’alterità e la complessità della vita
delle piante è al centro di Essere una quercia (2021) di
Laurent Tillon, che descrive tale complessità dalla prospettiva della pianta e
del bosco. L’autore, biologo e ingegnere forestale, non si accontenta infatti
di individuare una relazione particolare con una pianta specifica, cosa che
magari può essere un’esperienza comune per ogni appassionato di piante, ma
ripercorre la storia di una quercia attraverso i momenti fondamentali della sua
vita, dal 1780 ai giorni nostri. Nel preambolo introduttivo, Tillon scrive che
se ci fermiamo a guardare gli alberi con la dovuta attenzione, “se li
osserviamo attentamente, se esaminiamo ognuna delle loro reazioni di fronte ai
diversi problemi che devono affrontare, ci rendiamo conto che le piante
mostrano una capacità di adattamento straordinaria, impossibile da comprendere
con il nostro sguardo animale”.
È proprio in risposta alla nostra miopia
che l’autore cerca di entrare “nell’epidermide” della pianta e acquisire piena
coscienza di ciò che veramente è un albero. Il discorso è pre-scientifico, e si
fonda sulla logica della relazione: non serve, secondo Tillon, possedere una
conoscenza scientifica di come vivono le piante, è invece necessario “andare in
una foresta” e “appoggiarsi a un tronco”, “sentire un legame profondo con la
pianta”, “lasciarsi inebriare dai ritmi della natura”, la cosiddetta musica
delle piante, e “ammirare l’albero”. Per rispondere alla domanda “che cos’è un
albero?”, o che cos’è una pianta, serve anzitutto entrare in contatto con
queste forme di vita. La prospettiva è metafisica, nel senso che precede la
fisica: si parla di “essere” pianta e si parla di esserci, ovvero di un
incontro, di un contatto, di una relazione o mescolanza.
Tillon parla di ‘essere pianta’ e parla di ‘esserci’,
ovvero di un incontro, di un contatto, di una relazione o mescolanza.
Attraverso le fasi dell’essere della
pianta, a partire dalla vita di una ghianda del 1780, il libro svela la
relazione di una quercia con l’ambiente che le sta attorno, le modalità in cui
la pianta, assieme alle altre, costruisce l’ambiente e la natura. Ma non solo,
perché a partire dalla ghianda si instaurano innumerevoli relazioni tra piante
e animali, e infine con gli esseri umani. La prospettiva, dunque, si amplia, perché
la vita delle piante non è una vita isolata, ma è una vita di relazioni con gli
altri corpi: la pianta è attaccata nel terreno, e ha una relazione con i
minerali e la terra, dà spazio a funghi, muschio, galle e altri corpi viventi
che le crescono sopra, ed è una fonte di vita per gli animali e l’uomo.
Tuttavia, il ruolo di quest’ultimo è più profondo. Attraverso l’uso della
tecnologia, gli esseri umani trasformano il paesaggio, “per beneficiare di ogni
prodotto offerto dalla natura […]” e in particolare della produzione di
legname, cioè si inseriscono nell’unità tra piante e animali, trasformando la
natura stessa.
Se questo è un aspetto ormai accettato a
livello culturale, non ci dobbiamo accontentare. Partendo dalla recente
riflessione filosofica sulla definizione di vita vegetale, e sulla linea
dell’alterità tra regno vegetale e animale, Tillon offre una prospettiva
inedita, mettendo al centro del mondo le piante stesse, ristabilendo un ordine
naturale proprio e permettendo di sviluppare una scienza della vita vegetale
coerente. Nei vari capitoli sulla vita della quercia, e a partire dall’essere e
dalla vita di una pianta presa in se stessa, emerge una metafisica della
mescolanza, in cui le piante diventano il punto privilegiato per osservare la
natura nella sua complessità, come una trama di relazioni sotterranee e sopra
la superficie che si sviluppano al di là della ragione.
In questo senso, la centralità dell’umano o
l’idea che sia l’apice della scala naturale viene drammaticamente meno, perché
anche l’essere umano è all’interno di una relazione con la natura che è
necessario costruire non come mero sfruttamento dell’uno sull’altra sulla, ma
come scambio e reciprocità. Così, studiare le piante all’interno di questa
prospettiva “plantocentrica” permette di comprendere in modo diverso
l’ambiente, inteso non più come semplice costruzione dell’umano, bensì come
interrelazione tra uomo e natura. Acquistare questa consapevolezza ha una forte
importanza ecologica ed etica, ed è cruciale non solo per i biologi o i
botanici, ma per tutti noi, a cominciare dalle scelte green della
politica che puntano a rivedere il rapporto città/giardino e città/bosco non
più come mera alterità. Altrimenti la natura rimane qualcosa d’altro, che può
anche curarci, ma
che non fa davvero parte della vita degli esseri umani.
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