lunedì 28 agosto 2017

Le sofferenze della nascita

Come allievi di Freud pensiamo che il feto nella pancia della madre si trovi in una condizione di beatitudine, dato che ha tutti i suoi bisogni sono soddisfatti; e che una volta uscito desideri rientrare in quello stato di felicità. Ma nessuno di noi ne ha un ricordo diretto.
Dai maestri tibetani abbiamo altre descrizioni., del tutto opposte. La formazione del feto, da uno stato gelatinoso, è molto penosa. Il feto, chiuso nel buio dell’utero materno, stretto e maleodorante, soffre come se fosse rinchiuso in una prigione. Quando la madre beve qualcosa di caldo, lui si brucia; e quando beve qualcosa di freddo, lui si gela. Quando la madre si corica, viene schiacciato; quando la madre ha lo stomaco pieno, lui si sente intrappolato. Quando la madre ha fame, si sente cadere in un precipizio. Quando la madre cammina, si sente sbatacchiato.
Quando sta per nascere e viene spinto verso il collo della cervice, soffre come se fosse sbattuto. Quando attraversa le ossa pelviche, si sente stritolato. Ed entrambi, madre e figlio, rischiano la vita.
Poi la sofferenza del neonato continua. Quando viene posato su una superficie e lavato, si sente come in un mucchio di rovi. Quando viene abbracciato dalla madre, si sente come un passero stretto da uno sparviero. E non può che piangere.
Poi incominciano i problemi della fame, della sete e delle malattie. E questo è solo l’inizio, perché svilupparsi e crescere è una corsa ad ostacoli dove si può cadere ad ogni momento e farsi molto male.
Ma tant’è: questa è la vita che noi magnifichiamo.
Chi avrà ragione? Freud o i maestri orientali?

Forse ciò che ricordiamo come stato di beatitudine non è la gestazione, ma lo stato in cui non eravamo ancora degli individui ed eravamo uniti al tutto. 

Nascere, venire al mondo, è l’inizio della sofferenza: questo è certo.

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