Come allievi di Freud pensiamo che il feto
nella pancia della madre si trovi in una condizione di beatitudine, dato che ha
tutti i suoi bisogni sono soddisfatti; e che una volta uscito desideri
rientrare in quello stato di felicità. Ma nessuno di noi ne ha un ricordo
diretto.
Dai maestri tibetani abbiamo altre
descrizioni., del tutto opposte. La formazione del feto, da uno stato
gelatinoso, è molto penosa. Il feto, chiuso nel buio dell’utero materno,
stretto e maleodorante, soffre come se fosse rinchiuso in una prigione. Quando
la madre beve qualcosa di caldo, lui si brucia; e quando beve qualcosa di
freddo, lui si gela. Quando la madre si corica, viene schiacciato; quando la
madre ha lo stomaco pieno, lui si sente intrappolato. Quando la madre ha fame,
si sente cadere in un precipizio. Quando la madre cammina, si sente
sbatacchiato.
Quando sta per nascere e viene spinto verso
il collo della cervice, soffre come se fosse sbattuto. Quando attraversa le
ossa pelviche, si sente stritolato. Ed entrambi, madre e figlio, rischiano la
vita.
Poi la sofferenza del neonato continua. Quando
viene posato su una superficie e lavato, si sente come in un mucchio di rovi.
Quando viene abbracciato dalla madre, si sente come un passero stretto da uno sparviero.
E non può che piangere.
Poi incominciano i problemi della fame,
della sete e delle malattie. E questo è solo l’inizio, perché svilupparsi e
crescere è una corsa ad ostacoli dove si può cadere ad ogni momento e farsi
molto male.
Ma tant’è: questa è la vita che noi
magnifichiamo.
Chi avrà ragione? Freud o i maestri
orientali?
Forse ciò che ricordiamo come stato di
beatitudine non è la gestazione, ma lo stato in cui non eravamo ancora degli
individui ed eravamo uniti al tutto.
Nascere, venire al mondo, è l’inizio della
sofferenza: questo è certo.
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