Assistendo alle gare olimpiche con l’arco
o con armi da fuoco, ci accorgiamo che qui non si tratta di un’atletica del
corpo, ma di un’atletica della mente. Non a caso un bel libretto sullo zen s’intitola
Lo zen e il tiro con l’arco (di Eugen
Herrigel, Adelphi).
In effetti, non si tratta tanto di
lottare contro un avversario, ma contro se stessi – contro le proprie ansie, le
proprie paure, le proprie incertezze e le proprie distrazioni. “L’arciere
affronta se stesso fin nelle ultime profondità” dice il testo.
Non dobbiamo né irritarci per un tiro
sbagliato né esultare per un tiro indovinato. Dobbiamo imparare a starcene al
di sopra con distacco. Dobbiamo imparare l’imperturbabilità.
Solo mettendoci al di sopra delle
oscillazioni emotive, possiamo arrivare a far sì che il colpo parta e arrivi al
centro da solo.
Non siamo più noi che tiriamo, ma
siamo un tutt’uno con l’arco, la freccia e il bersaglio. Il tiro non dipende
più dalla volontà, ma dallo spirito.
È questo tipo di concentrazione che si
richiede anche in meditazione, quando ci si libera sia dall’angoscia della vita
sia dalla paura della morte.
Per ottenere questa condizione
spirituale, bisogna dimenticarsi del proprio ego e di tutti i suoi secondi
fini.
Dobbiamo far sì che il tiratore si liberi
di se stesso e che la coscienza si accordi con l’inconscio.
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