Ho sempre sostenuto che tutti gli esseri viventi hanno una forma di coscienza, in misura maggiore o minore. Si tratta solo di differenti livelli di consapevolezza, non di altro. D' altronde, ci sono diversi livelli di consapevolezza anche tra gli esseri umani. Non si può pensare che un Trump o un Putin abbiano un elevato livello di consapevolezza. Il problema è tutto qui. Che al potere arrivano brutali affaristi o macellai senza coscienza. Non persone sensibili e consapevoli.
Ho visto dei video di gatti che messi di fronte a specchio, non si riconoscono e credono di aver di fronte un altro gatto. Pare che solo i primati più evoluti si riconoscano.
Ecco, questo significa avere livelli diversi di consapevolezza. Non si può dire che i gatti o i topi non abbiano coscienza di sé (altrimenti non potrebbero sopravvivere). Tutti gli esseri viventi devono aver coscienza di sé, ma a livelli molto differenti. Anche lo scarafaggio, sorpreso dalla luce accesa, ha perfettamente coscienza di sé in rapporto a noi e per questo scappa. Se non avesse coscienza, non fuggirebbe.
Quando il leone e la gazzella si incontrano nella savana, sono perfettamente coscienti di sé in rapporto all' altro. E sanno cosa devono fare: attaccare o fuggire. Questa è la coscienza, non altro. La coscienza nasce dall' interrelazione degli esseri e delle cose, non è una sostanza metafisica.
Poiché siamo tutti interrelati, ed è questa relazione che e' coscienza. E' il legame, la connessione .
Se fossimo tutti separati, divisi, isolati, non avremmo coscienza.
Ebbene. la consapevolezza e' un livello più elevato di coscienza . E non è uguale per tutti. Ci stiamo sempre più differenziando.
Simone Valesini
Scienza22.02.2025
Anche gli animali hanno una coscienza? Ecco come la prospettiva sta cambiando
L’utilizzo di indicatori comportamentali sta facendo accumulare sempre più indizi che puntano alla presenza di esperienze coscienti anche al di fuori della nostra specie
gli animali hanno una coscienza
Un nuovo approccio è descritto su Science dai filosofi Kristin Andrews, della York University di Toronto, Jonathan Birch, della London School of Economics di Londra, e Jeff Sebo, della New York Universitykuritafsheen
Gli animali hanno una coscienza? Il modo in cui vediamo gli animali sta cambiando rapidamente negli ultimi decenni. Ed è anche merito della scienza, che continua a sfornare nuove scoperte sulle capacità cognitive di queste creature spesso solo all’apparenza così diverse da noi. Un conto, però, è dire che i cani sanno contare, che i pesci si riconoscono allo specchio o che i piccioni sognano. Un altro è affermare che siano dotati di una vera e propria coscienza, come quella che riconosciamo ai membri della nostra specie. Il tema è molto studiato, e in questi anni è in atto un vero e proprio cambio di paradigma nella ricerca scientifica della coscienza animale. Un nuovo approccio descritto su Science dai filosofi Kristin Andrews, della York University di Toronto, Jonathan Birch, della London School of Economics di Londra, e Jeff Sebo, della New York University, che sta iniziando a dare risultati sempre più solidi, guardando alla presenza di comportamenti e strutture anatomiche (principalmente a livello neurale) che nella nostra specie sono collegati ad aspetti di quella che definiamo coscienza, come indicatori dello stesso fenomeno anche nel mondo animale.
Cos'è la coscienza?
A rendere complicato lo studio della coscienza animale – spiegano i tre ricercatori – è in primo luogo la mancanza di una teoria e una definizione condivise di cosa questa sia. Negli esseri umani ovviamente non è un gran problema – tutti ci riconosciamo a vicenda il possesso di una coscienza – ma quando si passa al mondo animale le cose si complicano. L’onere della prova, per così dire, spetta a chi vorrebbe modificare l’opinione diffusa che la nostra specie sia un unicum in natura. Ma con almeno 22 differenti teoria della coscienza tra cui barcamenarsi, ottenere prove scientificamente inoppugnabili diventa quasi impossibile.
Che fare allora? I tre filosofi ritengono che la situazione sia simile al famoso “problema delle altre menti”, un interrogativo classico in filosofia della mente, che consiste nel chiedersi come possiamo essere certi che ci siano delle menti simili alla nostra nei corpi degli altri esseri umani. E suggeriscono che anche nel caso della coscienza animale, il problema si possa risolvere come proposto dal filoso britannico John Stuart Mill in un libro del 1889, in cui inferiva la presenza di una mente dal fatto che gli altri esseri umani hanno un corpo e un comportamento identici ai miei, che io so essere guidati dalla mia mente. Se vale per gli esseri umani, perché non dovrebbe valere anche per gli animali?
Ragionamento abduttivo
Ragionare per analogie è una forma di inferenza che ricade in quella che in filosofia viene definita abduzione: partire cioè da un fatto, e identificare la spiegazione più probabile. Se un animale mostra tutti i segni di un comportamento cosciente, insomma, è plausibile che abbia una coscienza: è il tipo di ragionamento che alimenta il metodo scientifico, e di per sé non fornisce certezze, ma semplicemente ipotesi che si fanno tanto più plausibili, quante più prove portiamo a loro sostegno. Inferire che un essere umano ha una coscienza dai suoi comportamenti è piuttosto facile, visto che è quasi in tutto e per tutto uguale a noi. Se parliamo di uno scimpanzé, le probabilità – al pari delle somiglianze – continuano ad essere elevate. Ma quando si passa a un pesce rosso o un piccione, le cose cambiano drasticamente.
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Le ricerche in questo campo di norma procedono identificando i possibili indicatori, o marker, comportamentali di un aspetto della coscienza che si decide di studiare. Evitare uno stimolo doloroso, ricordare ed evitare qualcosa che in passato ci ha provocato dolore, cercare attivamente qualcosa che il dolore può farlo passare, sono tutti indicatori della possibilità che un animale abbia coscienza di questa sensazione. Così come lo sono la presenza di strutture neurali che nella nostra specie sappiamo essere collegate all’elaborazione del dolore. Utilizzando questi indicatori molti ricercatori stanno indagando specifici aspetti della coscienza animale. E pur non potendo arrivare a dimostrazioni certe, quando diversi indicatori iniziano ad essere presenti contemporaneamente, l’ipotesi di trovarsi di fronte a una forma di coscienza inizia a farsi via via più difficile da scartare. E a detta dei tre filosofi, accade sempre più spesso.
Lo stato della ricerca
Nel campo dello studio del dolore gli esempi sono molteplici. Studi su topi e su uccelli hanno dimostrato ad esempio che in presenza di uno stimolo doloroso entrambi questi animali ricercano attivamente un farmaco anestetico, come farebbe un essere umano, e che quindi attribuiscono un qualche valore alla cessazione del dolore che questo induce. Nei rettili sono stati osservati diversi comportamenti associati all’esperienza del dolore, come la riduzione dell’appetito e l’attenzione ad evitare di appoggiare al suolo in area del corpo in cui è presente una lesione. E in anfibi come le rane sono state descritte le strutture neurali che trasportano i segnali dolorosi nei mammiferi.
Certezze come dicevamo non se ne possono avere. E per ora, mancano marker in grado di escludere che i comportamenti descritti negli animali siano dovuti a risposte puramente inconsce del loro organismo. La ricerca in questo campo ha quindi ancora molto lavoro da fare, e ci sono molti altri aspetti della coscienza da indagare oltre all’esperienza del dolore (si lavora ad esempio per validare dei marker comportamentali della felicità). Ma i risultati delle ricerche iniziano a convincere sempre più scienziati.
Lo dimostra la “New York Declaration on Animal Consciousness” promossa lo scorso anno proprio dai tre autori dello studio, e firmata da oltre 500 esperti internazionali. Un documento di consenso in cui viene definito “forte” il supporto dei dati scientifici all’attribuzione di esperienze coscienti a mammiferi e uccelli, e quanto meno scientificamente possibile anche la presenza in tutti gli altri vertebrati e in molti invertebrati (come molluschi e cefalopodi).
Ovviamente, la ricerca deve procedere con cautela, perché in questo campo è sempre forte il rischio di “antropomorfismo”, cioè la tentazione di vedere esperienze e comportamenti umani dove non ce ne sono. Ma mentre la scienza fa il suo lavoro, è difficile non condividere le conclusioni della dichiarazione di New York: e cioè che di fronte alla possibilità realistica che gli animali abbiano coscienza di quello che gli capita, sarebbe irresponsabile non tenerne conto quando le nostre azioni possono incidere sul loro benessere.
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