Facciamo tanta fatica a
costruirci un io (ci vogliono anni e una sacco di condizionamenti), ma poi non
sappiamo come liberarci della sua oppressione. Sì, perché l’io è come una
corazza o un confine che ci chiude e ci immobilizza tutta la vita. Si può anzi
dire che la liberazione spirituale sia essenzialmente un liberarsi dai limiti
che ci impone l’io. Ben presto ci accorgiamo che se io sono “questo”, non posso
essere nient’altro. Sono imprigionato, immobilizzato in uno spazio ristretto.
Tutti i percorsi spirituali mirano
a questo obiettivo. I mistici di un tempo dicevano: “Se sono occupato dall’io,
sono separato da Dio”. Cioè, mi ritaglio un’identità (psicologica, sociale,
ecc.), ma poi resto chiuso lì dentro e non posso più uscirne. Come diceva il
saggio indiano Vasubandhu, “finché resto aggrappato all’io, sono legato al mondo
della sofferenza.
Il problema dell’io è
proprio questo: la sofferenza che provoca. Perché essere rinchiusi in un io
significa doversi difendere in continuazione, dover arrivare continuamente al
cancello e non poter uscire. “Io” e “mio” sono qualcosa di cui ci siamo appropriati
e che temiamo ci possano essere strappati ogni momento.
Ecco il paradosso. Siamo
dominati dalla paura. Conservare l’io vuol dire combattere accanitamente, essere
continuamente in tensione, avere la mente piena di preoccupazioni. E una mente
piena di preoccupazioni è una mente infelice.
Quando ci dedichiamo a
qualche impresa o sport rischiosi, lo facciamo con la speranza di far tacere
questa mente piena di pensieri e di preoccupazioni, di paure e di ansie. Per una
volta riusciamo a far tacere le chiacchiere di una mente basata sull’io e sul
mio – e ci occupiamo di cose serie. E otteniamo la piena concentrazione.
Allentiamo la presa.
Noi non siamo i nostri pensieri,
noi non siamo le nostre preoccupazioni. Noi non siamo neppure il nostro “io”,
che è una costruzione posticcia.
E scoprire ciò che siamo al
di là delle nostre solite identificazioni è il nostro compito.
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