giovedì 4 luglio 2019

Liberarsi dell'io e del mio


Facciamo tanta fatica a costruirci un io (ci vogliono anni e una sacco di condizionamenti), ma poi non sappiamo come liberarci della sua oppressione. Sì, perché l’io è come una corazza o un confine che ci chiude e ci immobilizza tutta la vita. Si può anzi dire che la liberazione spirituale sia essenzialmente un liberarsi dai limiti che ci impone l’io. Ben presto ci accorgiamo che se io sono “questo”, non posso essere nient’altro. Sono imprigionato, immobilizzato in uno spazio ristretto.
Tutti i percorsi spirituali mirano a questo obiettivo. I mistici di un tempo dicevano: “Se sono occupato dall’io, sono separato da Dio”. Cioè, mi ritaglio un’identità (psicologica, sociale, ecc.), ma poi resto chiuso lì dentro e non posso più uscirne. Come diceva il saggio indiano Vasubandhu, “finché resto aggrappato all’io, sono legato al mondo della sofferenza.
Il problema dell’io è proprio questo: la sofferenza che provoca. Perché essere rinchiusi in un io significa doversi difendere in continuazione, dover arrivare continuamente al cancello e non poter uscire. “Io” e “mio” sono qualcosa di cui ci siamo appropriati e che temiamo ci possano essere strappati ogni momento.
Ecco il paradosso. Siamo dominati dalla paura. Conservare l’io vuol dire combattere accanitamente, essere continuamente in tensione, avere la mente piena di preoccupazioni. E una mente piena di preoccupazioni è una mente infelice.
Quando ci dedichiamo a qualche impresa o sport rischiosi, lo facciamo con la speranza di far tacere questa mente piena di pensieri e di preoccupazioni, di paure e di ansie. Per una volta riusciamo a far tacere le chiacchiere di una mente basata sull’io e sul mio – e ci occupiamo di cose serie. E otteniamo la piena concentrazione. Allentiamo la presa.
Noi non siamo i nostri pensieri, noi non siamo le nostre preoccupazioni. Noi non siamo neppure il nostro “io”, che è una costruzione posticcia.
E scoprire ciò che siamo al di là delle nostre solite identificazioni è il nostro compito.


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