Il percorso meditativo ha regole e
fasi. Parte da uno stato di concentrazione o assorbimento (jhana). Si tratta di guardare intensamente un “oggetto”, che può
essere materiale o immateriale.
Se come oggetto prendiamo il respiro,
dobbiamo prima di tutto calmarlo, rasserenarlo e renderlo sempre più interiore,
sempre più “sottile”, in modo da vedere la sua essenza immateriale, spirituale.
Quando riusciamo nell’operazione,
proviamo un senso di leggerezza e di soddisfazione (piti). Insistendo senza perdere concentrazione, la soddisfazione si
trasforma in gioia (sukha).
Questo processo va ripetuto di
continuo, finché non ne diventiamo padroni.
Talvolta, l’acquietamento avviene per
caso, a causa di qualche stato d’animo favorevole. Si tratta di casi fortunati
che possiamo tener presenti per capire a quale risultato puntiamo. Quella è la
via.
È chiaro che un risultato del genere è
temporaneo, in quanto tutto è impermanente e si trasforma. Ma proprio per
questo va ripetuto ed esteso a tutte le situazioni della vita. Anzi, serve
particolarmente quando siamo agitati, per trovare la calma.
Utilizzando la tecnica descritta o un
caso favorevole, ci troviamo al primo livello di accesso (jhana) della meditazione. Ora dobbiamo svilupparlo in una
condizione più stabile o duratura. Dobbiamo cioè ripetere di continuo i primi
passi: respirazione, acquietamento, piacevole concentrazione, ecc.
Ma siamo solo all’inizio: senza uscire
dallo stato di concentrazione, dobbiamo arrivare ad una visione più profonda (vipassana) scandagliando il carattere illusorio
della realtà, la sua impermanenza e la sua insufficienza.
La conclusione è il distacco da tutte
le cose e l’aspirazione ad uscire dal ciclo condizionato delle nascite e delle
morti, da questa realtà così limitata.
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