Se il Buddha fu un uomo fisico, un individuo storico, il buddhismo
non deve consistere nell’adorazione della sua persona divinizzata. Il Buddha
non lo dice mai; anzi dice esattamente il contrario:
“No fate di me un Dio, non adoratemi, ma guardate dentro di voi.
C’è uno stato divino dentro di voi e questo stato divino vi proteggerà”.
Aggiunse che era un uomo che si era
illuminato, non un Dio sceso sulla Terra.
Purtroppo, anche lui fu adorato proprio come un Dio, perché questo
è l’istinto degli uomini che non vogliono fare fatica, che non vogliono
lavorare su di sé, che non vogliono approfondire, che non vogliono assumersi la
responsabilità della propria evoluzione, che si aspettano tutto dall’alto, come
un dono.
Che cosa deve dunque rappresentare il Buddha per noi?
Nient’altro che lo stato della mente contrassegnato da saggezza,
equilibrio, distacco, pacatezza, chiarezza e tranquillità.
Se adoriamo il Buddha (e chiunque altro) come un Dio, manchiamo
del tutto l’obiettivo. Se ricreiamo in noi lo stato buddhico di saggezza, equilibrio, distacco, tranquillità e chiarezza,
lo centriamo in pieno.
Ora, l’obiettivo, il nirvana, l’illuminazione, la liberazione, ecc.,
non è il paradiso, ma è l’acquietamento.
Perché questo significa nirvana: l’acquietamento, l’uscire dalla tensione del
mondo, dei sensi e dei pensieri.
Non è poi così difficile sperimentarlo, dato che, oltre all’acquietamento
definitivo, esistono le nostre esperienze di acquietamento. Sono temporanee e
durano più o meno a lungo, ma sono altamente istruttive e significative. Sono
assaggi della via.
Noi siamo per lo più agitati, tesi e confusi. E meditare è
imparare a distendersi, a prendere le distanze, a disintossicarsi, a lasciar
andare, a non soffrire.
Una simile distensione è il principio della liberazione che
cerchiamo.