Finché siamo sospinti da ormoni e
istinti vari, troviamo un senso nella vita o, perlomeno, non ci mettiamo a
cercarlo.
Ma quando questi impulsi vengono meno
– per l’età, per le delusioni, per malattie, per disadattamento o per altri
motivi – ci poniamo la domanda: “Che senso ha tutto questo rumore, tutto questo
ordine sociale, tutta questa violenza?” Allora incominciano i guai: la
depressione, la paura, l’odio sociale o qualche fede che non faccia pensare.
L’esperienza dolorosa che facciamo
smaschera l’illusione che la vita sia un’esperienza bella, facile, utile,
positiva, ordinata.
“Legge e ordine” ce li inventiamo
noi. Nella realtà non esistono. Questa è la scoperta che si fa.
In meditazione ci si pone il problema
del senso, ma si sa benissimo che questo senso non c’è. La risposta dunque alla
domanda esistenziale non sta in qualche senso razionale, ma saltando su un
altro livello di comprensione.
Come si fa?
Porre l’interrogativo, trovare la
calma e smettere di impiegare le solite categorie di senso, Dio, anima,
aldiqua-aldilà, premio-punizione, bene-male, meta, scopo e così via.
Fare una cura di quiete.
Alla domanda della mente si risponde
con un diverso atteggiamento dell’essere.
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