Possiamo sposarci o rimanere scapoli,
avere figli o non averne, essere giovani o essere vecchi, essere ricchi o
essere poveri, vivere sempre nel nostro paesello o viaggiare di continuo, avere
tanti amori o non averne nessuno, avere successo o non averne, vivere a lungo o
vivere poco, essere illuminati o persone comuni, abitare in questo pianeta o in
un altro, rinascere o non rinascere, finire in un paradiso o in un inferno,
essere uomini o essere dei… ma non possiamo sfuggire alla sofferenza. Non c’è
stato o angolo dell’universo dove ci si possa nascondere al riparo dal dolore,
ovverosia dalla coppia dolore-gioia.
Bisogna capire che, finché durerà il
ciclo della vita, ci sarà sofferenza, piccola o grande, continua o estemporanea.
Questo è il destino comune di chi vive.
L’unico modo per uscirne definitivamente,
dunque, è sfuggire al ciclo della vita, del nascere e del morire.
Di fronte a questa inoppugnabile
constatazione, di fronte all’inevitabile dialettica degli opposti per cui non
può esistere felicità senza dolore, possiamo cercare di assaporare ogni singolo
istante di vita, possiamo farci prendere dalla paura e rinunciare a vivere,
oppure assumere un atteggiamento di stoico distacco, guardando l’intero
scenario come se si trattasse di una tragicommedia – e magari goderci i pochi
momenti in cui le cose ci vanno bene e farci pure una risata.
Già questo ci predispone ad andare al
di là degli opposti, cioè ad uscire dal dualismo dell’essere.
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