Articolo riprodotto:
Pangea
Poesia
04 Novembre 2024
“Vivere fra cielo e terra, come un pellegrino”. Canone cinese: le Diciannove antiche poesie
Waka: 100 poesie giapponesi dell’anno 1000
a cura di Davide Brullo e Fabrizia Sabbatini
Che utopia meravigliosa: il libro che contiene tutti i libri, la mappa che, squadernata su un mero tavolo, descrive tutti i mondi possibili – anche quelli che verranno.
Credo sia questo il fascino delle “Diciannove antiche poesie” (Gǔshī Shíjiǔ Shǒu), antologia collezionata in Cina durante la dinastia Han, compiuta, dicono gli storici, nel VI secolo. Le poesie sono – naturalmente, viene da dire – anonime, e costituiscono – idealmente – l’essenza della lirica cinese. Da questa matrice – ancor più che dalle odi canonizzate da Confucio – derivano i temi e i metodi della poesia che ci è nota tramite il genio, ad esempio, di Li Po e di Wang Wei. Domina, infatti, nelle “Diciannove antiche poesie” la levità del verso, la dedizione al paesaggio, il cuore messo a maggese, una continua – tenue, a tratti, a tratti cupa – malinconia. L’amore è sempre lontano, tra muraglie di lettere, promesse, ritardi; l’azzardo è tutto; del doman non v’è certezza. Le atmosfere di corte – una sorta di Provenza in Cina – scemano al cospetto della regalità naturale (monti, boschi); spesso, il poeta indugia verso il cielo, si immerge nella stellata, misura la propria infinita, ferina infermità di fronte al cosmo.
Smisurata è la profondità di questi versi, che scemano appena li pronunci.
Il ritmo è facile da mandare a memoria, le ‘scene’ hanno un carisma raffinato all’oro: diventeranno cliché letti e riletti e rimodulati in innumeri poesie. L’idea del dono impossibile – un ramo fiorito, inviato a chi non potrà mai riceverlo, a sgomento di un’assenza – mette in soprassalto perfino il nostro cuore bue. Un sano senso dell’assurdo – o meglio: venature d’ispirazione taoista – rende queste poesie spesso indimenticabili; le costellazioni, nominate come bestie da compagnia, sono più prossime e presenti degli umani, dai volti ambigui, senza contorni, apparizioni tra le nebbie. Ebbrezza reca questa magistrale solitudine, stemperata, appunto, dalla scrittura – meglio ancora, dal vino, nettare che netta, per un attimo almeno, ogni rimorso, che allena la ferita a farsi fertile prato.
Giuliano Bertuccioli parla delle “Diciannove antiche poesie” nel suo aurorale studio sulla Letteratura cinese (Sansoni, 1968; ripreso da L’asino d’oro), in questo modo:
“Dobbiamo considerare le Diciannove antiche poesie come una raccolta di poesie di autori diversi messa insieme da un letterato vissuto durante l’ultimo periodo della dinastia Han. Le poesie parlano di donne abbandonate, di amici lontani, di funzionari banditi in lontane contrade: il loro stile è inconfondibile. Sebbene durante la dinastia Han posteriore vi siano stati autori i quali coltivarono il nuovo genere delle poesie di cinque sillabe per verso, nessuno di essi ha saputo eguagliare la bellezza dei versi degli ignoti autori delle Diciannove antiche poesie”.
Tutti questi dati mi sono stati donati da Alessandro Burrone, poeta, amico, che conosce molto bene – per esperienza diretta – il mondo cinese e la sua letteratura. Mi ha consigliato la traduzione di quegli ancestrali testi a cura di Burton Watson, straordinario sinologo americano che ha, di fatto, tradotto tutti i grandi classici cinesi. Da qui l’idea di rendere in italiano – spartendo il bottino in fratellanza – i testi reperibili delle Diciannove poesie.
È bello a volte che le parole, più fugaci di un improvviso piovasco, possano attecchire nel corpo, farsi petroglifo, monile d’osso, formula incantatoria. È bello indossare un corpo d’Oriente, cavalcare la gru, che il cielo si spezzi, insieme ai suoi lembi di vetro.
***
Prima poesia
Andare, andare e ancora andare,
da te, in vita, separata.
Immensamente da te distante,
ciascuno a un confine del cielo.
Rivedersi, chissà quando?
Cavalli Hu seguono venti del nord,
uccelli Yue nidificano su rami del sud.
Sempre più distanti,
le cinture dei nostri abiti sempre più lente.
Nuvole vaganti coprono il sole bianco.
Il viandante non si cura del ritorno,
la nostalgia di te mi invecchia.
Anni, mesi e improvvisamente si è già fatto tardi.
Basta! Non parlare più!
Fatti forza e mangia in abbondanza.
*
Seconda poesia
Smeraldo, l’erba sulla riva del fiume,
lussureggiante, il salice del giardino.
Incantevole, la ragazza sul palazzo,
radiosa si sporge al davanzale.
Guance splendenti arrossate dal trucco,
l’esile e delicata mano protende.
Un tempo cantava nelle dimore del piacere,
ora moglie di un vagabondo.
Il vagabondo se ne è andato e non ritorna,
difficile è mantenere il letto deserto e solitario.
*
Terza poesia
Verde il cipresso sulla cresta, cumuli di pietre nei torrenti.
Vivere fra cielo e terra, come un pellegrino verso una meta lontana.
Gioiamo di questo mestolo di vino mediocre, come dei più prelibati.
Trainato da un ronzino su un vecchio carro, girovago per i centri di Luo e Wan.
Quanto è vivace Luoyang, cappelli e uniformi s’inseguono l’un l’altro.
Dalla via principale si scorgono in file ammassi di vicoli, spuntano ovunque ville di funzionari.
I due Palazzi a nord e a sud si guardano, torri alte decine di metri.
In mezzo a feste tanto sfarzose da riempire il cuore, perché mai tormentarsi con tante preoccupazioni?
*
Quarta poesia
È splendido oggi il banchetto, senza parole la gioia.
Le note di liuto delle musiche in voga risuonano nell’aria, l’armonia estasia.
Chi ha talento canta inni ispirati, chi ascolta li porta a lungo nel cuore.
Essa ispira a tutti uno stesso desiderio, anche se nessuno saprebbe dire quale.
Non abbiamo che una vita, dimora passeggera – polvere dispersa dal vento.
Perché non incitare il buon cavallo, occupare per primo il posto di comando?
A nulla serve rimanere poveri e modesti, né soffrire inutilmente se le nostre ambizioni non si realizzano.
*
Quinta poesia
A nord-ovest c’è un’alta torre, quasi la toccano passando le nuvole.
Finemente decorate le finestre e dal fitto reticolato, tetti sporgono dal padiglione a tre piani.
Da sopra si sente una voce cantare, accompagnata dal liuto, un suono così malinconico!
A cantare così, chi altro può essere se non la vedova di Qi Liang?
Una semplice melodia autunnale, portata dal vento, si interrompe sempre a metà.
Per una nota, tre singhiozzi – pieni di desiderio, infinito dolore.
È l’assenza dell’unico per cui la cantante suona, a ispirare tanta pietà.
Fossimo due cigni, vorrei spiccare il volo con lei in alto.
*
Sesta poesia
Ho guadato il fiume per cogliere fiori di loto, poi allo stagno pieno di orchidee.
Li ho raccolti per qualcuno, che ora è lontano.
Penso al paese da cui vengo, immensa la strada che ci separa.
Il mio cuore è ancora là, invecchierò inquieto e pieno di dolore.
*
Settima poesia
La luna chiara splende nella notte, canto di grilli sulle mura orientali.
Una stella del Gran Carro segnala l’arrivo dell’inverno – brillano le costellazioni.
Bianca rugiada sulle piante selvatiche, si danno il cambio senza posa le stagioni.
Dai rami il canto delle cicale d’autunno, dove andranno ora le rondini?
I miei vecchi compagni di scuola, hanno preso il volo agitando con forza le ali.
Non si ricordano più di come ci si stringeva le mani, mi hanno lasciato, come un’impronta del passato.
Con la costellazione del Setaccio non si passa alcunché; con quella del Mestolo non si versa vino, né ha gioghi quella del Bue.
Se non hanno la solidità della roccia, sono vuote parole che non servono a nulla.
Traduzioni di Alessandro Burrone
*La prima e la seconda poesia sono riprese dall’antologia di Melinda Pirazzoli, Intenti poetici. Poesia, poeti e generi poetici della Cina classica (Ananke 2016)
*
Ottava poesia
È così fragile, fragile e solo il bambù:
radici che raspano sull’alta collina;
ti unirai in matrimonio al mio signore
un rampicante arranca su muscosi clivi.
I rampicanti si allungano secondo i loro tempi
così marito e moglie cercano la loro esattezza.
A mille miglia di distanza ci siamo uniti nel voto
così lontani – passi di montagna tra noi.
Pensare a te mi rende millenario;
la tua carrozza è lenta ad arrivare!
I fiori mi rendono triste – orchidea, angelica
petali furibondi che spargono ovunque la loro maestà:
se nessuno li coglie all’ora della fioritura
appassiranno come l’erba d’autunno.
Ma se manterrai la promessa
come potrei mai tradirti?
*
Nona poesia
Uno strano albero volteggia sul giardino:
ha le foglie verdi, dardeggia un acquazzone di petali.
Piego un ramo pieno di fiori, lo spezzo
voglio inviarlo a chi amo.
La fragranza riempie il petto e le maniche
ma la strada è lunga e non lo riceverai mai.
Perché fare un dono di questo genere?
Mi ricorda da quanto tempo sei partita.
*
Decima poesia
Nei cieli profondi è la costellazione del Bifolco
sulla Via Lattea splende la Ragazza:
solleva le seriche dita lentamente
e scocca bagliori nei labirinti stellati.
Eppure, non può interrompere il lavoro
e le sue lacrime scendono a fiotti.
Benché la Via Lattea sia limpida e sicura
non si incontreranno per giorni.
Lei non dice nulla, fissa sgomenta
quel Fiume impetuoso, ed è sola.
[Al principio dei tempi, il Bifolco e la Tessitrice, la sua ragazza, si amarono così tanto da trascurare i propri compiti: il Signore del Cielo li tramutò in stelle, poste ai lati della Via Lattea. Agli amanti è permesso incontrarsi soltanto una volta all’anno, quando le ali delle gazze costruiscono per loro un ponte, e lo attraversano]
*
Undicesima poesia
Preparo la carrozza, aggiogo le bestie e parto
lontano, lontano, lungo strade senza fine.
Nelle quattro direzioni, pianure su pianure:
il vento orientale scuote le cento erbe.
Ciò che incontro non incenerisce il passato:
cosa può salvarci dall’improvvisa vecchiaia?
Gloria e decadenza, ognuno ha la sua stagione;
odio il successo, che arriva sempre troppo tardi!
L’uomo non è fatto di metallo né di pietra:
come può sperare di vivere a lungo?
Il mutamento ha fianchi feroci –
l’unico premio: un nome che scintilla!
*
Quindicesima poesia
La vita dura appena cento anni
e contiene millenni di paure.
Breve è il mezzogiorno, infinita la notte:
è bene mescolare luce e oscurità.
Finché puoi, vivi nell’azzardo:
non attenderti un giorno oltre a questo.
Gli idioti accumulano tesori
che le generazioni successive dissipano.
Nessuno può emulare
chi ha incatenato la sorte*.
*Letteralmente si intende: “Wang Tz’u-ch’iao, l’Immortale”. Ci si riferisce al figlio di un re della dinastia Zhou: dopo vent’anni di disciplina, raggiunse l’immortalità e volò oltre questo mondo a cavallo di una gru.
*
Diciassettesima poesia
Primo mese d’inverno: aria gelida
i venti del Nord sguainano crudeli coltelli.
Soffro, so che la notte è lunga
e guardo i favi abbaglianti delle stelle.
Quindicesima notte: la luna è piena, lucente;
ventesima notte: rospo e lepre calano*.
Un viaggiatore giunge da molto lontano
e mi mette una lettera in mano:
all’inizio parla di “imperituro ricordo”; alla fine
di “separazione sopportata da lungo tempo”.
L’ho riposta nella veste: dopo tre anni
nessuna parola si è sbiadita.
Offro il mio povero amore a cuore aperto
ma temo che tu non possa capirne il valore.
*Con rospo e lepre si intendono le aree chiare e quelle scure della superficie lunare.
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