martedì 22 ottobre 2019

IL nucleo dell'essere


Di solito guardiamo con attenzione tutto ciò che ci circonda, pensando che sia il mondo “esterno”. In realtà ciò che guardiamo è ciò che i nostri sensi rilevano: immagini, suoni, odori, sapori, ecc. È un esterno per modo di dire, perché è sempre qualcosa che appartiene a noi e che viene da noi interpretato. Ma lo stesso può dirsi per ciò che proviamo internamente: noi crediamo che sia qualcosa di “interno”, mentre è anch’esso in parte un prodotto esterno. Per esempio, se provo paura, c’è qualcosa di esterno – interpretato internamente – che mi provoca questo sentimento. Poi, questo qualcosa di esterno può essere vero o non vero. Se scambio una corda per un serpente e mi spavento, la causa è sì esterna ma anche interna (la mia errata interpretazione).
Ovviamente esterno e interno sono nostre classificazioni. Ma spesso non è facile distinguere tra l’uno e l’altro. I sensi sono fallaci. E la mente interpreta tutto a modo suo. Anzi, la mente è a sua volta un qualcosa di esterno (il cervello) che percepisce e giudica, producendo segnali interni.
È difficile dire dove finisca l’esterno e incominci l’interno, e viceversa. I due sono strettamente intrecciati ed esistono l’uno in funzione dell’altro.
Se chiudiamo gli occhi, gli orecchi e gli altri organi di senso, ci rimane prevalentemente l’interno e possiamo concentrarci su ciò che proviamo internamente. Qui rimangono le sensazioni, i ricordi e naturalmente i pensieri. Per noi sono “interni”, ma anch’essi sono nati da un contatto con l’esterno e adesso ci frullano per il capo. Insomma, anche dopo aver chiuso i sensi, ci rimangono comunque tracce del mondo esterno. Ma è vero anche il contrario: quando teniamo i sensi ben aperti e all’erta, l’interno continua a lavorare attivamente, confrontando, interpretando e interferendo.
Tuttavia in meditazione è bene dimenticarsi di queste distinzioni e puntare a un centro che non è né interiore né esteriore, o che è tutt’e due. In genere si cerca di percepirlo all’ “interno” di noi, facendo tacere (per quanto possibile) sia le interferenze del mondo esterno sia le interferenze del mondo interno. Si tratta di un atto di concentrazione che taglia fuori i due mondi e cerca di identificare il nucleo dell’essere.
Questo nucleo può essere percepito sotto varie forme (luci, punti o figure) che sembrano visibili davanti agli occhi, verso la fronte, verso la corona della testa o più in basso verso il cuore oppure verso l’addome. Ma la cosa migliore è sentirne la presenza senza cercare di visualizzarlo. Magari percepire uno spazio vuoto.
L’operazione può essere eseguita da seduti e in silenzio, oppure anche durante brevi istanti nella vita di tutti i giorni. Ci si ferma, si punta e zac!
Porsi in questo punto, anche per pochi momenti, permette una specie di reset del nostro stesso essere, di solito disperso o inseguendo il mondo esterno o il mondo mentale. Noi non ci dirigiamo né verso l’uno né verso l’altro, ma nel punto di intersezione di entrambi, al di fuori dello spazio-tempo.
L’esercizio, se perseguito con costanza, dona una visione lucida e distaccata che consente di guardare ogni cosa come dall’alto e impassibili. Vediamo scorrere le varie vicende del mondo come se noi fossimo altrove, in un luogo di pace.

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