Di solito guardiamo con attenzione tutto
ciò che ci circonda, pensando che sia il mondo “esterno”. In realtà ciò che
guardiamo è ciò che i nostri sensi rilevano: immagini, suoni, odori, sapori,
ecc. È un esterno per modo di dire, perché è sempre qualcosa che appartiene a
noi e che viene da noi interpretato. Ma lo stesso può dirsi per ciò che
proviamo internamente: noi crediamo che sia qualcosa di “interno”, mentre è
anch’esso in parte un prodotto esterno. Per esempio, se provo paura, c’è
qualcosa di esterno – interpretato internamente – che mi provoca questo
sentimento. Poi, questo qualcosa di esterno può essere vero o non vero. Se
scambio una corda per un serpente e mi spavento, la causa è sì esterna ma anche
interna (la mia errata interpretazione).
Ovviamente esterno e interno sono nostre
classificazioni. Ma spesso non è facile distinguere tra l’uno e l’altro. I
sensi sono fallaci. E la mente interpreta tutto a modo suo. Anzi, la mente è a
sua volta un qualcosa di esterno (il cervello) che percepisce e giudica,
producendo segnali interni.
È difficile dire dove finisca l’esterno e
incominci l’interno, e viceversa. I due sono strettamente intrecciati ed
esistono l’uno in funzione dell’altro.
Se chiudiamo gli occhi, gli orecchi e
gli altri organi di senso, ci rimane prevalentemente l’interno e possiamo
concentrarci su ciò che proviamo internamente. Qui rimangono le sensazioni, i
ricordi e naturalmente i pensieri. Per noi sono “interni”, ma anch’essi sono nati
da un contatto con l’esterno e adesso ci frullano per il capo. Insomma, anche
dopo aver chiuso i sensi, ci rimangono comunque tracce del mondo esterno. Ma è
vero anche il contrario: quando teniamo i sensi ben aperti e all’erta, l’interno
continua a lavorare attivamente, confrontando, interpretando e interferendo.
Tuttavia in meditazione è bene
dimenticarsi di queste distinzioni e puntare a un centro che non è né interiore
né esteriore, o che è tutt’e due. In genere si cerca di percepirlo all’ “interno”
di noi, facendo tacere (per quanto possibile) sia le interferenze del mondo esterno
sia le interferenze del mondo interno. Si tratta di un atto di concentrazione
che taglia fuori i due mondi e cerca di identificare il nucleo dell’essere.
Questo nucleo può essere percepito sotto
varie forme (luci, punti o figure) che sembrano visibili davanti agli occhi,
verso la fronte, verso la corona della testa o più in basso verso il cuore
oppure verso l’addome. Ma la cosa migliore è sentirne la presenza senza cercare di visualizzarlo. Magari percepire uno spazio vuoto.
L’operazione può essere eseguita da
seduti e in silenzio, oppure anche durante brevi istanti nella vita di tutti i
giorni. Ci si ferma, si punta e zac!
Porsi in questo punto, anche per pochi
momenti, permette una specie di reset del nostro stesso essere, di solito disperso
o inseguendo il mondo esterno o il mondo mentale. Noi non ci dirigiamo né verso
l’uno né verso l’altro, ma nel punto di intersezione di entrambi, al di fuori
dello spazio-tempo.
L’esercizio, se perseguito con costanza,
dona una visione lucida e distaccata che consente di guardare ogni cosa come
dall’alto e impassibili. Vediamo scorrere le varie vicende del mondo come se
noi fossimo altrove, in un luogo di pace.
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