Abbiamo organizzato le nostre società in modo
che tutto sia regolato in una cornice temporale che inquadra ogni nostro atto,
da quando ci svegliamo a quando andiamo a letto. Il tempo diventa così una
gabbia dalla quale non possiamo sfuggire. “Ore otto, faccio questo… ore nove
faccio quest’altro… ore dieci faccio quest’altro ancora… e così via, senza
tregua. Naturalmente questo tempo sociale lo abbiamo creato noi, con la nostra
mente organizzatrice e calcolatrice.
Ogni cosa è scandita dal tempo, che diventa un
padrone inflessibile, un’ossessione, uno stress.
Ogni tanto non ce la facciamo più. E allora
saltiamo questo o quell’impegno – sentendoci, però, in colpa.
Uscire dal tempo sociale diventa allora un’esigenza
di riequilibrio, di terapia, di liberazione e di riappropriazione di sé.
Dobbiamo rallentare, dobbiamo evadere dagli schemi che ci imprigionano,
dobbiamo fermarci per fare il punto della situazione.
Se non è possibile prenderci una vacanza o se
non possiamo rinunciare ai nostri compiti, possiamo ritagliarci alcuni minuti di pausa tra un impegno e l’altro.
Ma se ci limitiamo a stare in ozio o a fare una
passeggiata, la nostra mente continua a lavorare, a ricordare, a pensare, a
fantasticare, ad andare indietro nel passato o avanti nel futuro. E quindi non
ci liberiamo dallo stress. Ci portiamo dietro le nostre preoccupazioni.
Per liberarsi veramente ci si può concentrare
sul presente, sul qui e ora. Possiamo spezzare la catena dei pensieri e
diventare consapevoli: “Io sono qui e ora, io sto vivendo questo attimo che è
unico e irripetibile”.
Possiamo favorire la concentrazione chiudendo
gli occhi, oppure allungando l’ espirazione o trattenendo il respiro. In tal
modo dilatiamo il più possibile l’istante presente, uscendo dal tempo e dal
luogo contingenti – e perfino dal nostro ego sociale. In questi attimi non sono
più Tizio o Caio, ma una coscienza vuota, che si assimila al sé universale.
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