Noi tutti sappiamo di essere e di avere
un io. Sarebbe difficile definirlo, ma ne abbiamo un’intuizione. Sappiamo com’è
fatto il nostro corpo e sappiamo a grandi linee come è fatta la nostra mente.
Tutto ciò costituisce l’io, la nostra identità.
Benché questa identità cambi nel tempo,
noi sappiamo di essere quelli che vediamo in una fotografia di dieci o
trent’anni prima. Certo, alcune cose saranno cambiate. Ma, più o meno siamo gli
stessi.
Se però ragioniamo, ci riesce difficile
ammettere che questo io sia un’entità autonoma, autosufficiente e permanente.
In realtà siamo il prodotto dei nostri genitori e, prima ancora, dei nostri
avi, di tutti i parenti che ci hanno preceduto. Siamo dunque entità
interdipendenti, come tutto a questo mondo. Nessuno è veramente indipendente e
stabile.
Ma questo non significa che non siamo
originali. Anche se siamo fatti di “pezzi” altrui, la sintesi che ne facciamo
può essere anche unica. Se però dovessimo dire quale sia questa sintesi, questo
nucleo, forse non ci riusciremmo. A livello profondo, tutto si complica.
Il problema è che chi si pone la domanda
“chi sono io?” è un soggetto che, per rispondere, dovrebbe dividersi in due e
farsi oggetto. Difficile o impossibile conoscere se stessi.
In effetti ci conosciamo poco e male,
così come conosciamo poco e male anche gli altri. Però questo non ci impedisce
di essere, di vivere, di agire e di interagire. Anche se non so chi sono,
comunque sono e tanto mi basta. In fondo siamo tutti ombre di noi stessi, apparenze
che si muovono come attori che recitano parti scritte da non si sa chi.
Quando ci raccogliamo in meditazione e
ci poniamo la domanda sulla nostra identità, abbiamo solo una sensazione – la sensazione
di essere e di essere un io di cui conosciamo solo certe caratteristiche. Il
resto ci è ignoto. Figuriamoci se sappiamo se questo io sarà eterno o scomparirà
per sempre. Qui subentrano solo le credenze e le fedi, ma nessuna certezza.
La parte di noi stessi che non
conosciamo possiamo chiamarla inconscio o non-io. È una parte che non può
essere scandagliata oltre un certo punto, perché non è più un io definito e individuale,
ma qualcosa di collettivo e confuso, una zona di confine non ben delimitata. L’io
confina con un non-io che è come un serbatoio universale di identità.
Noi ne peschiamo alcune parti, ma altre
rimangono oscure, perché non ancora definite. Entriamo dunque nel campo del
non-io o non-sé, un vasto mare su cui galleggiano pallide identità. Di questo
dobbiamo essere ben consapevoli per non cercare cose impossibili da conoscere.
Dobbiamo entrare nel non-io, che è un grande
vuoto pieno di possibilità per il momento inconoscibili. Ma, entrando nella
vacuità del non-sé assolviamo un compito importante: allarghiamo il campo dell’io
e torniamo a de-individualizzarci per universalizzarci. Siamo come gli
esploratori che entrano in una regione sconosciuta ma piena di potenzialità. In
fondo importa poco chi fossero prima. È più importante che cosa sono ora. La
ricerca stessa crea o allarga un nuovo io, molto più interessante del vecchio.
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