sabato 30 novembre 2019

Chi siamo veramente? Come essere di più.


Noi ci crediamo individui, esseri separati e indipendenti, e crediamo di poterci osservare così come osserviamo un oggetto qualsiasi. Ma non è esattamente così.
       Prima di tutto, non siamo esseri separati, né dagli altri né dal mondo. Esistiamo perché esistono e sono esistiti altri esseri prima di noi. Siamo tutti interconnessi, sia orizzontalmente sia verticalmente nel tempo. Nello stesso tempo, siamo parte di un ambiente che fa parte di un mondo che fa parte di un universo, ecc. Siamo dunque fatti delle stesse particelle di cui sono fatte tutte le cose nel cosmo - particelle che sono soltanto cariche, onde o pacchetti d'energia.
       Quando poi cerchiamo di conoscere noi stessi, incontriamo una difficoltà insuperabile. Noi siamo sempre il soggetto che conosce, non l'oggetto che conosciamo. Nel momento in cui ci pensiamo, in realtà ci rappresentiamo, ma non siamo più il soggetto conoscente.
       Naturalmente abbiamo un'identità personale, anche se si tratta di qualcosa di illusorio che, oltretutto, è condizionato pesantemente.
       Ma chi siamo veramente? Certo possiamo fornire dati anagrafici, fisici, psicologici... Ma si tratta di elementi parziali, che non ci dicono ancora chi siamo. Certe parti di noi ci restano sconosciute. Se qualcuno ci avesse seguiti e osservati fin dalla nascita saprebbe molte cose, ma non saprebbe ancora chi siamo. E noi stessi non lo sappiamo.
       In fondo, nessuno conosce dove arrivino i confini dell’anima. Non c’è un vero fondo. L’anima è come un albero che attraverso i rami e le foglie è in contatto con l’aria e l’ambiente, e attraverso le radici è in contatto con il sottosuolo e i suoi tesori.
       Allora, più che fornire dati parziali, più che ricordare il passato, più che porci domande, dobbiamo metterci in silenzio, senza pensare, senza proiettare, senza concettualizzare, senza rappresentare qualcosa di noi. Dobbiamo cercare di "coglierci", non di pensarci. Dobbiamo cercare di rilassarci, di interrompere la tensione esistenziale, di arrestare l'interminabile produzione di discorsi interiori, di ricordi, di previsioni, di preoccupazioni, di ansie e di fantasie, di confronti con il passato, di calcoli per il futuro, eccetera eccetera... Dobbiamo insomma lasciar da parte la frenetica attività mentale che ci abita e che ci impedisce di coglierci.
       Siamo come l'uomo che cerca di afferrare la propria ombra, siamo come il cane che cerca di prendere la propria coda. Non serve a niente correre sempre di più. Dobbiamo fermarci.
       Fermandoci, fermando la mente concettuale, duale e calcolante, non diventiamo dei vuoti beoti, non perdiamo la nostra identità; ma, al contrario, acquisiamo una più vasta consapevolezza di essere che ci permette di utilizzare la mente in modo molto più funzionale, concentrato ed efficace.
Noi perdiamo tempo ed energie pensando e ripensando a cose inutili, pieni di paure, di ansie e di sogni inconsistenti. Tolti questi, la mente funziona in grande armonia con le nostre necessità, vedendo molto più chiaramente e risolvendo meglio i problemi.




venerdì 29 novembre 2019

L'io ignoto


Noi tutti sappiamo di essere e di avere un io. Sarebbe difficile definirlo, ma ne abbiamo un’intuizione. Sappiamo com’è fatto il nostro corpo e sappiamo a grandi linee come è fatta la nostra mente. Tutto ciò costituisce l’io, la nostra identità.
Benché questa identità cambi nel tempo, noi sappiamo di essere quelli che vediamo in una fotografia di dieci o trent’anni prima. Certo, alcune cose saranno cambiate. Ma, più o meno siamo gli stessi.
Se però ragioniamo, ci riesce difficile ammettere che questo io sia un’entità autonoma, autosufficiente e permanente. In realtà siamo il prodotto dei nostri genitori e, prima ancora, dei nostri avi, di tutti i parenti che ci hanno preceduto. Siamo dunque entità interdipendenti, come tutto a questo mondo. Nessuno è veramente indipendente e stabile.
Ma questo non significa che non siamo originali. Anche se siamo fatti di “pezzi” altrui, la sintesi che ne facciamo può essere anche unica. Se però dovessimo dire quale sia questa sintesi, questo nucleo, forse non ci riusciremmo. A livello profondo, tutto si complica.
Il problema è che chi si pone la domanda “chi sono io?” è un soggetto che, per rispondere, dovrebbe dividersi in due e farsi oggetto. Difficile o impossibile conoscere se stessi.
In effetti ci conosciamo poco e male, così come conosciamo poco e male anche gli altri. Però questo non ci impedisce di essere, di vivere, di agire e di interagire. Anche se non so chi sono, comunque sono e tanto mi basta. In fondo siamo tutti ombre di noi stessi, apparenze che si muovono come attori che recitano parti scritte da non si sa chi.
Quando ci raccogliamo in meditazione e ci poniamo la domanda sulla nostra identità, abbiamo solo una sensazione – la sensazione di essere e di essere un io di cui conosciamo solo certe caratteristiche. Il resto ci è ignoto. Figuriamoci se sappiamo se questo io sarà eterno o scomparirà per sempre. Qui subentrano solo le credenze e le fedi, ma nessuna certezza.
La parte di noi stessi che non conosciamo possiamo chiamarla inconscio o non-io. È una parte che non può essere scandagliata oltre un certo punto, perché non è più un io definito e individuale, ma qualcosa di collettivo e confuso, una zona di confine non ben delimitata. L’io confina con un non-io che è come un serbatoio universale di identità.
Noi ne peschiamo alcune parti, ma altre rimangono oscure, perché non ancora definite. Entriamo dunque nel campo del non-io o non-sé, un vasto mare su cui galleggiano pallide identità. Di questo dobbiamo essere ben consapevoli per non cercare cose impossibili da conoscere.
Dobbiamo entrare nel non-io, che è un grande vuoto pieno di possibilità per il momento inconoscibili. Ma, entrando nella vacuità del non-sé assolviamo un compito importante: allarghiamo il campo dell’io e torniamo a de-individualizzarci per universalizzarci. Siamo come gli esploratori che entrano in una regione sconosciuta ma piena di potenzialità. In fondo importa poco chi fossero prima. È più importante che cosa sono ora. La ricerca stessa crea o allarga un nuovo io, molto più interessante del vecchio.





giovedì 28 novembre 2019

Gli insoddisfatti


A noi sembra una gran fortuna essere usciti dal caos del vuoto originale ed esserci formati come individui pensanti. Ma bisogna moderare gli entusiasmi. Niente in questo mondo è un dono gratuito – tutto ha un prezzo.
Il prezzo dell’individuazione sotto forma umana si chiama sofferenza. Esistono vari tipi di sofferenza, che possono essere suddivisi in quattro gruppi:
1.   Le sofferenze inerenti all’individualità, che è sempre limitata e imperfetta. Noi non possiamo ottenere sempre quel che vogliamo e possiamo essere separati da chi amiamo o essere costretti a vivere con chi non ci piace. Inoltre sappiamo di essere individui effimeri che durano un po’, ma sono destinati a sparire.
2.   Le sofferenze dovute al cambiamento e al divenire, che non ci permettono di essere o di avere niente di stabile.
3.   E le sofferenze legate alla nascita, alla malattia, alla vecchiaia e alla morte, con cui alla fine perdiamo di nuovo tutto quel che abbiamo ottenuto.
Nessuno può sfuggire a questi stati di sofferenza. E tutti siamo tormentati da preoccupazioni e da paure.
Ma c’è chi soffre di più e chi soffre di meno. Certamente, nascere sotto forma di esseri umani pensanti è una fortuna, soprattutto perché possiamo avere e sviluppare la consapevolezza delle cose e di noi stessi. Però non tutti hanno adeguate capacità fisiche e intellettuali, e molti non sviluppano un sufficiente grado di consapevolezza.
Chi si attacca troppo alle cose e alle persone è destinato a soffrire ancora di più. Ed è dunque molto meglio guardare il mondo e noi stessi come qualcosa di illusorio e incompleto.
Se lo stato umano è superiore rispetto, per esempio, alla condizione degli altri animali, non è affatto uno stato soddisfacente. Bisogna quindi utilizzarlo per sviluppare il più possibile la nostra consapevolezza e per mirare più in alto. Di questo non dobbiamo mai dimenticarci.
L’insoddisfazione è essa stessa una sofferenza, ma è anche il segno di una tendenza a più nobili aspirazioni. Essere umani è sì una fortuna, però va considerata solo una base di lancio. E, se siete insoddisfatti di questa esistenza, vuol dire che lo sentite anche voi e che tendete più in alto.

Dopo aver ottenuto questo ego prezioso, infatti, dobbiamo incominciare a lavorare sui suoi limiti e rivedere in particolare i suoi attaccamenti, le sue avversioni e le sue indifferenze. In tal senso, dobbiamo incominciare a farlo uscire dal suo egocentrismo e allargarlo ad altre visioni, più universalistiche.

Contemporaneamente è bene lavorare sulla insostanzialità delle cose, in modo da distaccarsi dall’illusione che il mondo sia qualcosa di solido. Si tratta in realtà, in gran parte, di una proiezione della mente stessa, una proiezione che può essere cambiata o annullata, fino a giungere a quella realtà ultima che al momento è indefinibile.



mercoledì 27 novembre 2019

L'irrealtà


Quando qualcuno sogna, per lui la realtà è quella. Se sogna qualcosa di spaventoso, prova una paura reale, tanto che il suo cuore batte all’impazzata, ecc.
       Ma, quando si sveglia, si accorge che la paura provata era irreale. E non solo era irreale, ma era anche prodotta da lui stesso.
       Ecco qui spiegato il meccanismo illusorio della “realtà”. È la mente che crea o connota le esperienze. Se, nel buio, mi imbatto in qualcosa che mi sembra un serpente, mentre è una corda, io provo paura come se ci fosse veramente il serpente.
       Così le nostre esperienze ci sembrano fondate, oggettive, anche quando sono soltanto nostre proiezioni.
       Qual è allora il piano ultimo della realtà? Quello dello stato di veglia? Ma chi ci assicura che non sia anche questo un’illusione, come le esperienze immaginarie del serpente o del sogno?
       Il problema è riconoscere la natura delle nostre esperienze. Niente ci assicura che anche queste non siano uno stato di sogno e che un giorno ci sveglieremo e ci troveremo su un altro piano.
       Noi siamo sempre convinti che le cose siano reali e oggettive, salvo poi accorgerci che sono semplici apparenze o illusioni.
       Naturalmente, tutto è reale – anche un sogno. Ma esistono diversi livelli di realtà. Non possiamo escludere che anche la morte sia un altro tipo di salto o di passaggio e che la vita che credevamo reale si riveli anch’essa una specie di sogno.
       Come fare ad avere qualche certezza?
Resta il fatto che noi, ignari di tutto, ci fidiamo di questo stato di realtà e ci attacchiamo alle cose, anche se potrebbero essere inconsistenti. Del resto, tutto è inconsistente, essendo formato da danze di pacchetti d’energia di cui sappiamo ben poco e che non sono mai stabili.
La nostra stessa mente vi gioca un ruolo fondamentale. Quante delle esperienze che viviamo sono oggettive e quante sono prodotte o deformate dalla mente?
Nessuna sa rispondere a questa domanda. Ma ogni tanto tutti proviamo un senso d’irrealtà, di vivere qualcosa di insoddisfacente, di incompleto. In fondo quasi tutto ci delude.
Qui incomincia la ricerca meditativa, il desiderio di verità e di realtà, la nostalgia di un mondo completo e chiaro. Questa vita sembra proprio uno stato intermedio, quello che i tibetani chiamano bardo. I bardo sono tutti gli stati intermedi, i momenti di passaggio, come quelli tra un pensiero e l’altro o fra due stati di coscienza. E non c’è dubbio che anche l’esistenza appaia come un luogo di passaggio, in gran parte elaborata dalla nostra mente.
Ma, quando la mente si fermerà, quale altra realtà ci apparirà?



martedì 26 novembre 2019

I mediatori di Dio


È un'antica pretesa quella dei sacerdoti di essere mediatori tra l'uomo e Dio. Un'idea curiale, burocratica e gerarchica... sostenuta ovviamente da una casta che in tal modo ottiene una funzione, un riconoscimento e una ricompensa. Nell'India antica, per esempio, esistevano i brahmani, i quali affermavano che il rapporto con il divino e anche l'ordine sociale dipendessero dai loro rituali. Oggi, questa concezione è ancora presente nel cristianesimo, dove il prete si pone come l'unico interprete autorizzato della volontà divina e dei rituali.
              Il cattolico si rivolge al prete un po' come si rivolge ad un patronato. Spera di essere trattato con più considerazione e con più cura; spera di poter mercanteggiare meglio.
       Ma domandiamoci: che bisogno c'è di ricorrere a sacerdoti e a rituali per rivolgersi a Dio? Chi ci vieta di farlo direttamente, in prima persona? Crediamo che Dio sia una specie di Papa con tutta la sua corte, che bisogna ingraziarsi?
       Chi ci ha messo in testa un'idea del genere? Chi, se non i creatori e manipolatori dei Vangeli?
       Dio non solo non è un Potere esterno. Addirittura è... in ciascuno di noi, è ciascuno di noi. Ma, poiché non ne siamo consapevoli, ci rivolgiamo prima all'esterno e poi ad un mediatore. E rivolgendoci all'esterno e a un mediatore, ecco che manchiamo completamente il divino. Siamo irrimediabilmente divisi da Dio. Cioè, è Dio che si divide da se stesso.
       Così ci toccherà rimandare tutto al prossimo giro. Cioè, Dio dovrà rimandare tutto al prossimo giro.


"La coscienza è la presenza di Dio nell'uomo". (Emanuel Swedenborg)

Nuove immagini di Dio


I Vangeli cercano di presentarci Gesù come l'agnello di Dio che viene immolato per la salvezza di tutti. "Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo!" Giovanni 1,29. Certo, questo era l'unico modo che avevano per giustificare quello che obiettivamente appare come il fallimento di Gesù – uno che credeva in un intervento del Padre eterno.
       Ma resta il fatto che il Dio in cui credevano quegli uomini era ancora quello barbarico dei sacrifici di sangue (perché sacrificare il Figlio?), quello degli animali o degli uomini immolati per placare l'ira di Dio. Era una visione arcaica e sanguinaria.
       Visione arcaica e sanguinaria che purtroppo contraddistingue ancora il cristianesimo, che appare una religione vecchia, una religione materialista, un corpo estraneo nel mondo moderno, non all'altezza dei tempi.
Il Dio di Gesù sarà anche un padre, ma un padre di più di 2000 anni fa, uno che comanda a bacchetta e che vuol decidere della vita e della morte dei figli. Lo vediamo in tante parabole dove si presenta come un amministratore, un giudice, un mercante, un banchiere, un sovrano, un padrone dispotico.
Non lascia libertà ai figli, non li consulta, decide tutto lui. Chi si sottomette lo ammette alla sua corte, ma per chi si ribella c’è solo la punizione.
Certo è un po’ meglio di quello squilibrato della Bibbia ebraica, che è un Dittatore pazzo. Ma ha ancora quelle radici. Che non sono una meraviglia di liberalità e di democrazia.
       Una delle grandi colpe del cristianesimo è proprio questa: di tenere la mente di tanti uomini immersa in idee obsolete sul divino, idee legate all’autoritarismo. Non è un caso che i fascismi rinascenti degli occidentali si dichiarino tutti cristiani. Trovano la sponda giusta.
       Chi pensasse oggi al Divino, non dovrebbe più riferirsi alla tradizione giudaico-cristiana (e anche islamica), ma dovrebbe far piazza pulita di tutte quelle vecchie tradizioni. Dovrebbe inoltre tener presente le religioni orientali, la filosofia moderna e le ultime scoperte della scienza (fisica, astronomia, neurobiologia, ecc.). Da una simile sintesi emergerebbe un’immagine completamente nuova di “Dio”.

Ma come si fa a pensare ancora a Dio con le stesse idee che si avevano 2000 o più anni fa?

lunedì 25 novembre 2019

Il Dio imprigionato


L’Italia è piena di chiese e di opere d’arte “religiose”. Ma, quando arriva un terremoto, un incendio, una frana o un’alluvione, sono le prime a crollare, essendo anche antiche. Non risulta comunque che questi luoghi “sacri” godano di una qualche forma di protezione da parte del Cielo.
E allora perché si costruiscono chiese, perché si costruiscono statue? Per un bisogno di Dio o per un bisogno degli uomini?

       E quale sarebbe questo bisogno? Quello di confinare il divino in qualcosa costruito dall'uomo? Quello di poter trattare in qualche modo con la trascendenza? Quello di acquisire qualche merito?
       Pretese di menti infantili, che di Dio non hanno capito nulla.

Ma l’Altissimo non abita in costruzioni fatte da mano d’uomo…” (Atti 7, 48).

La guerra interiore


Il Papa e gli altri leader religiosi, quando si incontrano o in altre occasioni, non mancano di elevare appelli alla pace. Tutto bene. Ma, a quanto pare, senza risultati: non solo il mondo è pieno guerre, ma le religioni vi danno anche il loro contributo. Né si è neppure mai visto che una religione riesca a fermare una guerra tra paesi con la stessa fede.
       Come mai? Forse i religiosi non hanno parlato abbastanza di pace? No, ne parlano tutti i giorni. E allora?
       E allora le parole lasciano il tempo che trovano. Ci vuole ben altro. Ci vuole che ogni individuo porti dentro di sé la pace, prima osservando dentro di sé e negli altri tutte le pulsioni di guerra, tutte le antipatie, tutte le discriminazioni e tutte le avversioni, e poi cercando di eliminarle.
       Se non si fa questo lavoro interiore e personale, gli uomini, per quanto religiosi, non si renderanno conto dei propri istinti bellicosi e quindi non riusciranno a devitalizzarli.
       Questo vale per tutti i vari “comandamenti” religiosi. Non serve a niente parlarne. Serve invece, quando sono giusti, introiettarli. Ma qui casca l’asino. Perché le religioni non addestrano alla meditazione personale. E i buoni propositi restano lettera vuota.
La verità è che continuiamo a vivere di chiacchiere e di valori che restano al di fuori, alla superficie dei singoli individui. E, alla prima occasione, i vecchi istinti distruttivi – ben vivi dentro di noi - saltano fuori e… fanno la guerra indisturbati.
Dunque, invece di parlare tanto di pace, amore, bontà, unione e benevolenza, diventiamo consapevoli di quante volte in un giorno proviamo impulsi di aggressività e di odio. E scopriremo come la guerra esterna sia la proiezione della nostra guerra interna.



domenica 24 novembre 2019

Dio e il Diavolo


Si capisce perché i credenti siano così restii ad abbandonare la credenza in Satana. In fondo, come succede sempre con gli opposti complementari, il Diavolo è il più grande sostenitore della causa di Dio.
       Così, chi crede nel Diavolo crede in Dio e chi crede in Dio crede nel Diavolo. I due sono come le due facce di una stessa medaglia. D'altronde, la loro comune origine etimologica è evidente in quel prefisso "di" che indica dualità.
       Nella stessa Bibbia, il "serpente" è all'inizio al servizio di Dio. Nel racconto della Genesi, dove il "serpente" inganna Eva, si capisce che lavora alla dipendenze di Dio, anzi è una maschera di Dio stesso, dal momento che contribuisce alla caduta (e alla crescita) della prima coppia, cui si aprono finalmente gli occhi.             
       Nel libro di Giobbe (2, 1-7), non solo Satana è al servizio del Signore, ma è l'avvocato del processo. D'altra parte, se Dio era onnisciente, come non avrebbe previsto l'intervento del suo alter ego?
       Ecco perché nel Vangelo di Giovanni (3, 14), Gesù viene paragonato al "serpente": "Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo".
       Insomma, Dio e il Diavolo sono una coppia inseparabile: dove va l'uno, va anche l'altro. Soltanto se si concepisce il divino al di fuori della dualità, si esce da questo giochetto infantile delle maschere e si può incominciare a capire qualcosa della realtà. Che è forgiata dalla nostra mente dualistica.
       Ma, per capire la trascendenza, bisogna saper andare al di là del bene e del male, di Dio e di Satana e capire come i due possano coesistere.
Non è vero che l’una cosa escluda l’altra. Le cose finiscono o non finiscono? In realtà finiscono e non finiscono. Al pensiero "o...
o" dobbiamo sostituire il pensiero "e... e" .


"In interiore homine"


“Non avrai altro Dio all’infuori di me!” Questo è un Dio prepotente, geloso, dittatoriale, possessivo e, dunque, pieno di paura… paura di essere tradito.
       Che religione volete che nasca dall’adorazione di un simile Dio? E quale classe dirigente? E quale modello per i maschi?
       Bassamente umano.
       E questo abbiamo ancora oggi in chi si serve di questo modello per imporre regimi autoritari, sia nella politica sia nella famiglia sia nella società.
       In effetti, questo modello nacque in società primitive in cui non esistevano né democrazia né pluralità di opinioni né rispetto delle libertà individuali e non si concepiva che qualcuno pensasse e decidesse con la propria testa.
       Ma, a parte i modelli generali che ci vengono imposti, ognuno ha un proprio modo di percepire o negare. “Come uno è, così è il suo Dio” diceva Goethe.
Lascia perdere le idee ricevute dal passato e scendi al fondo di te stesso: questa è l’unica via per avvicinarsi all’Origine. Come diceva sant’Agostino, non uscire da stesso, rientra in te: in interiore homine habitat veritas.


sabato 23 novembre 2019

Lo stato naturale dell'essere


Quello che è certo è che per ogni uomo, anche il più tormentato, esiste uno stato naturale dell’essere – purché egli sappia trovare un momento di tregua, non oberato né da pensieri né da preoccupazioni né da desideri né da speranze, e sappia rimanere perfettamente nel presente.
Raccolto in sé, distaccato dalle solite ansie, ecco che ritrova questo stato di pace.
Per evocarlo, non c’è bisogno di far nulla di specifico. Anzi, non bisogna fare proprio nulla. Dopo le solite tensioni, assolti i doveri sociali, possiamo prenderci del tempo per noi stessi e ci rilassiamo.
Spenti telefono, radio, televisione, chiusi i giornali, allontanati i ricordi, le immagini e i pensieri del passato e del futuro, perfettamente centrato nel momento presente, allora gli uomini, liberi per un po’ da legami e impegni, non coinvolti almeno temporaneamente, possono trovare lo stato di benessere naturale, possono lasciar andare ogni tensione.
Non si tratta di uno stato eccezionale né di un’estasi mistica, né di uno stato alterato di coscienza, così come si cerca con le droghe naturali e artificiali, ma di un benessere, di “uno stare bene”, del tutto gratuito, senza sforzi, senza tensioni. È come il programma base di un computer che non è per il momento impegnato in alcuna operazione.
Il problema è proprio questo: che noi siamo sempre impegnati in qualche attività, fisica o mentale. E quindi ci dimentichiamo quale sia lo stato naturale. Ma esiste, c’è ed è a disposizione di tutti.
Passato il momento di benessere, ritorniamo alla vita di tutti i giorni  e ci rendiamo conto del bailamme in cui viviamo di solito, degli infiniti modi in cui ci complichiamo e ci roviniamo la vita.



giovedì 21 novembre 2019

La via individuale della meditazione


Gli uomini si trovano a vari livelli di evoluzione. Ci sono quelli che sono totalmente identificati con ciò che fanno e con ciò che pensano, ossia con l'esistenza terrena, e ad essi sarebbe inutile parlare di spiritualità, perché non ascolterebbero nemmeno; hanno altre cose da fare: devono pensare a far denaro, a fare figli, a diventare importanti o a conquistare cose, posizioni e persone. Poi ci sono quelli che hanno compreso di essere soltanto fenomeni transitori e illusori, ma che pensano di non poter far nulla per cambiare la situazione - al massimo si affidano a un Dio. Quindi ci sono coloro che vorrebbero fare qualcosa e che si impegnano in questa o quella pratica. E naturalmente ci sono coloro che si trovano a innumerevoli livelli intermedi.
       Quando si capisce che il mondo è una specie di fantasma e che la vita è una specie di sogno, che oltretutto dura ben poco, ci si trova in realtà all'inizio del percorso. Questo è il punto di partenza: il senso di irrealtà, il senso di insoddisfazione, il dubbio, capire che la felicità non può consistere nell'avere il maggior numero possibile di cose.
       Una volta raggiunto questo barlume di comprensione, il cammino è avviato. Potranno esserci deviazioni, soste, ritardi, ripensamenti ed errori, ma la via è segnata: non si potrà più tornare a quella grezza concezione di un mondo soltanto materiale, in cui bisogna arraffare il più possibile. Si è capito che la nostra realizzazione non avverrà mai a quel livello, ma che è necessario sviluppare una visione spirituale o religiosa delle cose.
       Per andare avanti su questa strada, ci vorrà forse una vita intera... o anche più vite. Però il dado è tratto.
Purtroppo, se ci si accontenta di ciò che ci dicono le religioni, ci si trova solo su una via predefinita, percorsa da tanti – una via che non sarà mai individuale e che non potrà mai farci fiorire per ciò che siamo realmente.
È come in un viaggio organizzato: se ci affidiamo ad un Tour Operator, vedremo le cose che sono state preordinate per noi, ma non molte altre, forse più interessanti. Invece, se procediamo da soli, potremo scoprire cose nuove e originali, interdette agli altri. La via è personale, perché dobbiamo innanzitutto scoprire noi stessi. E solo noi possiamo esserlo!
D’altronde, neppure per Gesù la via è un’autostrada su cui tutti possano entrare per giungere sicuramente alla stessa meta:


Quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,14)


mercoledì 20 novembre 2019

Il distacco


Non vi fidate degli uomini che sono troppo attaccati al potere o al proprio ego. Quando dovete eleggere qualcuno ad una carica di potere, guardate quanto sia attaccato alle cose. Alle cariche pubbliche dovrebbero eletti gli individui più distaccati, non i deliranti egolatri che, come vediamo sempre più spesso, non appena hanno un po' di potere, si lanciano a soddisfare i loro desideri repressi: soprattutto sesso, proprietà, denaro e fama. Che pena vedere tanti Presidenti della Repubblica, Capi di Stato, Re, Primi ministri. ministri, amministratori, consiglieri, ecc. gettarsi alla conquista di ciò che non hanno mai avuto. Ominicchi, uomini da poco, che non sanno resistere alla minima tentazione!
       Il distacco è molto importante sulla via. Perché è il segno che l'individuo si rende sempre più conto di essere un'entità illusoria ed è sempre meno condizionato dalle passioni e dagli interessi del mondo.
       Con il distacco, l'uomo vede più obiettivamente se stesso e gli altri, capisce la tragicommedia del mondo, prende le distanze dal futile gioco sociale ed entra nel mondo della spiritualità. E così incomincia anche a indagare sulla propria reale consistenza, su ciò che dà una vera felicità.
       L'uomo non evoluto, invece, si illude ancora che la felicità sia data dagli oggetti materiali, dalla ricchezza e dal piacere più o meno durevole.
       Il distacco accresce la ricerca spirituale e la ricerca spirituale accresce il distacco.
       In un individuo, il distacco è segno sicuro della presenza della dimensione spirituale.

Io lodo il distacco più dell’amore
                      Meister Eckhart

Le religioni della guerra


Nel saggio di Paolo Naso, Le religioni sono vie di pace: falso!, edito da Laterza, si mette bene in evidenza quanto le religioni siano invece responsabili di tante guerre. Per esempio la Guerra dei trent’anni che tra il 1618 e il 1648 fece ben 12 milioni di morti. Ma, più in generale, l’idea di violenza contro chi la pensa diversamente e crede in altri Iddii o non crede affatto è proprio connaturata a chi ha un fede.
       La fede è quasi sempre intollerante. E i missionari della varie religioni vanno in giro per “conquistare anime”, spesso con metodi violenti o fraudolenti.
Noi oggi abbiamo l’esempio del fanatismo islamico, che ha scatenato varie guerre e continua a usare il terrorismo, ma nei secoli passati il cristianesimo ha conquistato mezzo mondo armato anche del crocifisso, con la scusa di voler convertire i “selvaggi”. Lo stesso antisemitismo che rispunta fuori continuamente non è una semplice “cattiva interpretazione” dei Vangeli, ma è una loro diretta applicazione.
Proprio nei Vangeli, Gesù, in un momento di sincerità, proclama che non è venuto a portare la pace, ma la spada e la divisione. “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12, 49)
Anche nelle religioni orientali esiste un metodo sopraffattorio, del tutto intollerante e irrispettoso della libertà altrui. E là dove lo stato non è laico, ma confessionale, per esempio in Israele, in India o in Turchia, assistiamo alle persecuzioni delle altre religioni.
Il problema è proprio quello dello stato confessionale, dove non si distingue tra religione e politica. Oggi il fenomeno è ben visibile anche in Europa, dove il cristianesimo appoggia la politica più autoritaria. Pensiamo all’Italia dove non c’è una netta separazione tra Stato e Chiesa e dove tanti preti e cardinali indicano quali politici votare e non votare e appoggiano o osteggiano voti ai referendum, e spesso si scontrano fra di loro. E pensiamo a certi leader politici che usano simboli religiosi per farsi appoggiare dai credenti e dalla Chiesa.
La religione si presenta dunque come un altro modo di far politica, ossia di condizionare la vita dei cittadini. È da questa confusione che nascono tanti problemi di governabilità. Le religioni hanno uno specifico, ma è illusorio pensare che debbano o possano occuparsi solo di quello. Alla fin fine, gli uomini non sono nemmeno capaci di capire che cosa sia la religiosità e parlano di Dio, di anima, di bontà, di peccato, di paradiso e di inferno proprio per definire i rapporti di potere all’interno delle loro società terrene. Il resto è del tutto opinabile.



martedì 19 novembre 2019

Il tempo del qui e ora


Ci sono stati d’animo del tutto contrari alla meditazione. Se prendiamo l’ansia, l’agitazione, l’attivismo, la frenesia e altri stati d’animo di questa gamma, scopriamo che il soggetto che ne è in preda non può meditare. Infatti egli vorrebbe essere in qualunque altro luogo e tempo, ma non qui e ora. Questo è il punto. In meditazione invece dobbiamo essere distesi, sereni, rilassati, centrati e a nostro agio nel presente.
E, se non apprezziamo il nostro stare qui e ora, in questo tempo e in questo luogo, finiamo per non poter meditare.
Entrare nel qui e ora significa in realtà penetrare e aderire ad un presente che è quasi fuori dal tempo. E poiché il tempo è sempre relativo, è qualcosa che non può mai essere in sé. Ed è ovvio, perché è più una qualità della mente pensante.
Ma, se il tempo non è oggettivo, noi che cosa inseguiamo? In realtà fuggiamo da noi stessi. L’irrequietezza e l’agitazione sono stati d’animo di chi è alienato, di chi è qui con il corpo, ma lontano mille miglia con la mente.
Lo spazio-tempo con le sue discrasie (passato, presente, futuro; qui e là) è il prodotto di un’anima che non riesce a stare in sé, che è sempre altrove. E la meditazione è il tentativo di rimediare a questa incapacità per abitare finalmente a casa nostra e non vaganti in un mondo in cui non troviamo riparo.
Incominciamo a fuggire, a non essere noi stessi, quando nasciamo; e poi continuiamo tutta la vita, alla ricerca della nostra vera casa dove essere finalmente in pace.
Essere nel qui e ora è entrare nella calma e far finire la fuga alienante. Per chi è calmo e medita, il tempo rallenta e si dilata, fino a scomparire.
Ci sono dunque due stati dell’essere: l’agitazione che fa correre il tempo e ci mette in moto nello spazio e nel nostro stesso essere; e la calma che ci fa essere presenti, nel qui e ora, sereni, soddisfatti.
Ogni tanto ci domandiamo da dove veniamo e dove andiamo… Ecco, dove andiamo? E ci conviene affrettare i tempi?
Se affrettiamo i tempi, affrettiamo soltanto il tempo della nostra alienazione, della nostra malattia mortale. Andiamo da dove veniamo e veniamo dove andiamo. Ma siamo sempre qui e ora. La nostra vita, la nostra realtà è sempre qui, è sempre ora.

lunedì 18 novembre 2019

La meditazione del benessere


Ci sono persone che amano starsene per un po’ tranquille e in silenzio, fuori dal bailamme quotidiano, a meditare, e ci sono persone che odiano perfino l’idea della meditazione. Ma forse le differenze stanno nel modo in cui si presenta l’ “oggetto” della meditazione, che può essere molto vario e individuale. Non tutti devono fare la stessa cosa.
Per esempio, di solito si inizia con la meditazione sul respiro - una pratica che può annoiare e che non porta a risultati in tempi brevi. Non parliamo della consapevolezza sui nostri stati d’animo: spesso la gente non ama l’auto-osservazione e non sa niente di sé.
Se allora proponiamo una meditazione sul silenzio o sul vuoto tra due pensieri, può darsi che qualcuno provi una certa avversione.
Anche la ripetizione di un mantra, se non ben giustificata e spiegata, può apparire noiosa e piuttosto stupida.
Ma noi proponiamo qualcosa che è ben accetta a tutti: la meditazione sul senso di benessere.
Ci calmiamo e ci raccogliamo, fino a provare un senso di piacevolezza. Se fa caldo, trovate un posto fresco; se fa freddo, trovate un posto caldo e accogliente.
Soprattutto, mettetevi comodi e rilassatevi. Il vostro cuore-corpo e la vostra mente rallentano. Fate un po’ come un gatto che si raccoglie tutto e fa le fusa.
È inevitabile che proviate un senso di benessere. Ora, questo benessere è esattamente lo stato d’animo che dovete prendere come “oggetto”. Lasciate perdere ogni altro pensiero e concentratevi su questa sensazione.
Il benessere, lo stare bene, piace a tutti. E su quello voi meditate.
Riempitevi di benessere, immedesimatevi nel benessere. Tutto il resto, le preoccupazioni, le ansie e i desideri passano in secondo piano.
Tenete presente che questo benessere di base non è dovuto a qualche stato eccezionale, a qualche evento o a qualche persona. È proprio qualcosa che hanno tutti quando non sono impegnati nelle lotte dell’esistenza. Tutti gli esseri umani, anzi tutti gli esseri viventi, possono apprezzarlo.
E tenete presente che l’accesso alla meditazione è connotato proprio da una simile piacevolezza ed è alla portata di tutti. Il benessere è la porta d’ingresso, è già meditazione. E, una volta scoperto il meccanismo, può essere esteso e approfondito, fino a diventare una vera e propria beatitudine di tipo spirituale.
Poi studiatevi e sperimentate i vari livelli di jhāna, ben descritti, anche se in modo schematico, dal buddhismo. Potete accedervi a poco a poco anche voi.

domenica 17 novembre 2019

Corpo e mente


Noi crediamo che il nostro io sia realmente esistente come un oggetto qualsiasi. Ma, a parte il fatto che anche gli oggetti più solidi non sono che balletti di atomi, il nostro io è semplicemente uno stato della coscienza, un concetto. Certo, questo concetto è legato ad un corpo, ma il corpo a sua volta è una danza di elettroni, ben poco consistente e duraturo.
       Quando ci addormentiamo in un sonno senza sogni, dove va a finire il nostro io? E quando muore anche il corpo? In realtà, quando non c'è una mente che lo pensa, l'io semplicemente non c'è.
       L'io è dunque un concetto della mente, tant'è vero che uno schizofrenico, che ne ha due o più, li ritiene tutti veri. E anche noi, quando sogniamo di essere qualcun altro, lo riteniamo perfettamente reale.
       Ma la sostanza dell'io è quella di un'idea della mente - un'idea più o meno provvisoria e illusoria.
       Questa constatazione ci dice però anche qualcosa di positivo: se infatti l’io esiste in quanto è pensato in un certo modo dalla mente, se la mente lo pensasse in un modo diverso, sarebbe ipso facto diverso.
       Ciò che la coscienza ha montato, la coscienza può smontare.

Oltre la morte


Ti senti vivo perché cerchi di afferrare tutto e non intendi perdere neanche un piacere? Ti senti vivo perché scacci ad ogni momento la morte con le tue attività? No, amico mio, non potresti pensarti vivo se non ci fosse la morte, se non vedessi ad ogni istante gente che muore. Ecco che cos’è al fondo questa tua vitalità - è la controparte della mortalità.
Non è la vita che sconfigge la morte. È la morte che permette la vita.
Anche l’essere può essere solo perché nasce dal non-essere. È la morte che ciò da cui esce la possibilità di esistere. Non te lo dimenticare quando inveisci contro la morte.
Naturalmente gli uomini non accettano la morte. Ma chi mette al mondo la vita mette al mondo la morte. L’ultimo nemico da sconfiggere dovrà essere la morte, così come crede san Paolo? No, se eliminassimo la morte, non ci sarebbe più la vita.
Se vuoi veramente “vivere” devi trascendere vita-e-morte. Devi andare al di là di entrambi. Lì non ci sono né vita né morte?
E che cosa c’è? Questo è il koan.Che cosa c’è là dove non ci sono né la vita né la morte, né l’essere né il non-essere?

sabato 16 novembre 2019

Il nuovo bigottismo


Il nuovo bigottismo ha poco a che fare con la spiritualità, ma molto con il potere, con il desiderio di imporre e di imporsi. Il nuovo bigottismo è una forma di abuso religioso che si serve delle forme deteriori della religione per imporre regole autoritarie. Il nuovo bigottismo nasce già vecchio: ha idee antiquate del divino e della religione. Il nuovo bigottismo è superficiale perché recupera simboli e riti superstiziosi.
Il politico che fa campagna elettore esibendo simboli religiosi, è chiaramente uno che, non avendo idee nuove in testa, punta sugli antichi retaggi della superstizione. È fondamentalmente un ignorante che vuole comandare senza averne i titoli e le competenze.
Chi va in giro con il crocefisso in tasca o appeso al collo non è diverso da chi va in giro con il cornetto rosso contro il malocchio.
Il nuovo bigottismo, come già il vecchio, rivela una mancanza di intelligenza e una tendenza alla subornazione dell’incapace. Se il bigotto ci crede è un cretino, se non ci crede è un truffatore.

La nuova tecnologia della coscienza


La ricerca del Sé non ha niente a che fare con la ricerca psicologica, perché, mentre questa seconda è un'analisi della mente, la prima vuol andare al di là della mente abituale. In tal senso la ricerca spirituale incomincia quando finisce la ricerca psicologica, quando si vuole uscire dai limiti dell'io empirico.
       Il Sé o l'Io spirituale non è il sé o l'io psicologico, ma la sua sorgente. Questa Sorgente si trova là dove cessano i concetti, il dualismo mentale e la distinzione tra conoscente, conosciuto e conoscenza.
       Ed il bello è che è sempre presente, pur essendo eclissata dalle attività mentali. La gente non lo sa e cerca all'esterno ciò cha ha all'interno.
       Il paradosso è che meditare è all'inizio un'attività della mente. Ma ciò che si cerca è al di là della mente.
       La pratica della meditazione formale non è quindi in grado di trovare ciò che cerca... a meno che non consista nel far tacere la mente, per far risplendere ciò che veniva tenuto in ombra.
       Non siamo noi che illuminiamo la sorgente. Noi possiamo solo toglierle gli ostacoli per far sì che brilli da sola.
       Quando il cielo è coperto dalle nuvole, non possiamo vedere il sole. Ma il sole è sempre lì, e, quando le nuvole vengono spazzate via dal vento, ecco che ricompare.
       Fuor di metafora, questa è la situazione del Sé, ossia della sorgente che cerchiamo. È sempre presente, pur essendo oscurata dalle nuvole delle varie attività mentali e sensoriali. Se sospendiamo queste attività, la sorgente risplende di nuovo.
       Ora, la meditazione formale (stare seduti, seguire il respiro, ripetere un mantra, ecc.), essendo un prodotto di uno sforzo della mente, non è in grado di vedere la sorgente. La sua stessa attività la nasconde. Che fare allora?
       Bisogna rivolgere l'attenzione non all'ego, non alle attività mentali, ma ricercare direttamente il Sé. Il Sé è il sole sempre presente, le nuvole sono le attività mentali basate sull'ego. Tolte le nuvole, il Sé risplende di nuovo.
       Non si tratta, però, di pensare il Sé, ma di esperirlo - un'attività che è più simile ad un ricordare o ad un risvegliarsi da un sogno. Quando uscite da un sogno, vi rendete conto che la realtà è un'altra e ve ne ricordate immediatamente.
       Questo risvegliarsi, questo ricordare qualcosa di dimenticato, significa diventare consapevoli. Si diventa consapevoli da una parte, di non essere quel vecchio io e, dall'altra parte, di quale sia la nostra vera natura.
Così si esprime la tradizione. Ma noi oggi possiamo dire che la meditazione è una tecnologia della coscienza che ci permette di usare in modo diverso la mente. Vedere come la mente ci condizioni con le sue strutture di funzionamento e con le sue categorie, e cercare di impiegarla in base a nuove funzionalità.
La mente è come una macchina o un computer che finora ci ha guidati senza che ce ne rendessimo conto. Ma esiste un modo diverso di far funzionare lei (e il cervello). Certo occorrono esercizio, determinazione e creatività.

venerdì 15 novembre 2019

Sedere in silenzio


Quando ci sediamo sulla poltrona del dentista e vediamo il trapano, siamo pieni di tensione e di paura - tensione e paura che ci fanno sentire in modo orribile e accrescono la nostra sofferenza. Se a quel punto riuscissimo a rilassarci, scopriremmo che il dolore effettivo è inferiore a quello immaginato.
       Il dolore nella vita è inevitabile, ma la mente che vorrebbe evitarlo lo ingigantisce. In realtà, la maggior parte della sofferenza è di natura mentale, perché la mente ha il potere di moltiplicare i motivi di sofferenza e di ingigantire le paure e i desideri. Se riuscissimo a vedere la realtà così com'è, senza aspettative e senza immaginazioni, senza pensieri e senza parole, accettando sia la gioia sia il dolore, momento per momento, non solo vedremmo le cose con più chiarezza, ma soffriremmo di meno.
       La comprensione è il fondamento di tutto, e ci permette di utilizzare non una mente divisa, separata dall'esperienza e tesa, ma una mente ben più vasta, che è aperta ad ogni avvenimento e che è più vicina alla natura della realtà.
       La sospensione della mente abituale, che è dominata da preoccupazioni e tensioni di ogni genere e che crede di essere un io isolato, ci porta ad un'apertura mentale, ad un'ampiezza di visione, che ci fa distendere e ci apre nuove potenzialità. Molti uomini di genio hanno confermato che le idee migliori le hanno avute quando la rigida razionalità taceva e la loro mente era silenziosa e come sospesa.
       In effetti quando ci sediamo in silenzio e non pretendiamo di controllare noi stessi e il mondo, quando non ci poniamo obiettivi particolari, quando siamo rilassati, la mente rivela le proprie potenzialità. Siamo soprattutto aperti a ciò che è, alla realtà, a quel Sé che si sente ed è parte del tutto.
       Non abbiamo neppure più paura della morte, perché ci rendiamo conto che la morte è simile a ciò di cui abbiamo già fatto esperienza sospendendo corpo e mente.
       Dicevano i maestri zen cinesi: "Se vuoi vederlo, guardalo; se lo pensi, lo hai già perduto".



giovedì 14 novembre 2019

L'accesso alla meditazione


A che cosa serve la meditazione? Innanzitutto a darti un potere suoi tuoi stati d’animo su cui di solito non hai alcun controllo. E questo tipo di potere ti permette di avere un’influenza sulla realtà e a cambiare il tuo rapporto con te stesso, gli altri e gli eventi.
       I nostri stati d’animo elementari sono stati determinati dalla natura che li ha selezionati per la sopravvivenza: paura, ansia, desiderio, amore, avversione, fuga, gioia, odio, senso di possesso, gelosia, ecc. Su questi stati d’animo noi non abbiamo di solito alcun controllo: si determinano da soli in relazione a determinati eventi. Ed è inutile dire: cerca di non aver paura, di essere coraggioso, di non provare ansia, ecc.
       Ad un primo livello, la meditazione ti addestra a resettare gli stati d’animo elementari e a ritornare ad una sorta di stato d’animo di liberazione che può anche essere gioioso.
       I metodi per arrivarci sono vari: respiro, mantra, vuoto mentale, concentrazione, consapevolezza, ecc. Ma uno piuttosto naturale è utilizzare la stanchezza stessa della mente che tende spontaneamente, dopo un po’, a lasciar andare lo stato d’animo negativo e perturbante e a ritornare ad una sorta di stasi mentale che può essere alimentata deliberatamente fino ad allungarla il più possibile.
Si tratta di una specie di riposo spontaneo che può essere favorito dall’esercizio – dobbiamo abituarci a lasciar andare i pensieri negativi e i loro stati d’animo. Innanzitutto assumiamo l’atteggiamento meditativo dell’interiorizzazione, un po’ come quello della tartaruga che ritira le zampe e la testa sotto il guscio. Sediamoci, chiudiamo gli occhi, calmiamo il respiro, avviciniamoci ad uno stato prossimo al sonno. Qui possiamo anche addormentarci.
Come tutti sanno, il sonno è una grande medico. In esso ci dimentichiamo dei problemi che ci assillano ed entriamo in uno stato di relax.
Ma lo scopo non è quello di dormire, bensì di liberarci dalla tensione. Dopo un po’, uscendo dal sonno o dalla concentrazione profonda, non svegliamoci del tutto. Ci accorgeremo che la nostra mente resta come immobile, essendo uscita da ogni tipo di pensiero. Restiamo così, vuoti, sospesi.
Prima che ritorni il ricordo della realtà, rendiamoci conto del sentimento di benessere. La verità è che svuotare la mente, con i suoi assilli, è un fatto piacevole. Noi restiamo in questo benessere e cerchiamo di prolungarlo. Qualcuno parla di beatitudine, ma non esageriamo. Abbiamo la prova che gli stati di benessere promessi dalla meditazione non sono un mito e possono essere raggiunti da tutti.
Naturalmente siamo solo all’inizio. Il problema successivo è di prolungare con pazienza e determinazione questi stati d’animo e trasferirli il più possibile nello stato di veglia.
Non ci scoraggiamo se incontreremo difficoltà e fallimenti. Anche le meditazioni fallite sono utili.
Al posto di questo metodo, che sfrutta il raccoglimento naturale della mente in certi momenti della giornata, si può utilizzare qualsiasi altro “oggetto” o strumento: la consapevolezza del respiro, un mantra, la concentrazione su un’immagine, l’intervallo tra due pensieri o stati d’animo, ecc. Ma il punto di arrivo è lo stesso: lo svuotamento della mente, la sospensione di ogni altra attività mentale, fino a sperimentare un alto grado di unificazione e benessere.

Il nostro procedimento, comunque, ha il pregio di essere sempre a portata di mano e di non aver bisogno di sforzi. È per così dire un regalo della natura che sembra venirci incontro.

mercoledì 13 novembre 2019

Il Dio dentro e il Dio fuori


Se Dio è l’energia del mondo, ha poca importanza che sia esterno o interno – evidentemente è dappertutto, dentro e fuori. Anche se preghi Dio sentendolo esterno, in realtà lo fai partendo dalla tua interiorità. Il problema è che noi, in certi momenti, abbiamo bisogno di un’energia che non sappiamo dove trovare, ma che non ci importa niente sapere da dove provenga.
       Il problema è che abbiamo bisogno di qualcosa che deve mobilitare le nostre energie, salvare noi stessi. Poco importa se le immaginiamo provenire da fuori o da dentro, sa hanno una forma o l’altra. Noi siamo frammenti di questo mondo, siamo immersi nel mondo, siamo già sistemi energetici.
       Quando i mistici di tutte le religioni intuiscono che il centro dell’anima è Dio o che l’atman (l’anima, il nostro fondo) coincide con il Brahman, dicono che le nostre distinzioni fra interno ed esterno sono semplici giochi di parole. Quello che conta è il nostro stesso impulso, la nostra stessa forza.
       In meditazione non si tratta di pensare o immaginare qualcosa. Meditare su qualcosa è in realtà essere quella cosa.
Ora, le “cose” possono essere semplici stati d’animo. Io non devo meditare sulla forza, ma essere forte. Non devo meditare sulla calma, ma essere calmo. Meditare è già ottenere in gran parte ciò su cui meditiamo.
Se medito sulla pace ma non ho la pace, a che mi serve? Io come soggetto non ottengo niente.

In fondo a noi interessano poco le questioni teoretiche, filosofiche o religiose; a noi interessa il fare, il decidere, il potere – il potere di fare le cose che ci stanno a cuore, la nostra trasformazione effettiva sulla via del mondo, il rinnovamento del nostro rapporto con gli eventi, con le persone e con l’esistenza. Come fare a influire sul nostro destino. Tutto il resto è speculazione astratta.