Il motivo per cui la tecnica più comune
e più immediata di meditazione è seguire il respiro (magari contando le
espirazioni o le inspirazioni) sta nel fatto che il respiro è la nostra stessa
vita – non vita pensata, ma vita percepita, esperita qui e ora. Ma notiamo
subito che il termine “respiro” è collegato con il termine “spirito”.
Potremmo quindi dire che in meditazione
stiamo attenti al nostro stesso spirito.
Questo stare attenti al nostro stesso
spirito, anziché alle cose del mondo, è l’essenza della meditazione – un’essenza
da cui ci discostiamo non solo con i nostri mille traffici, ma anche la
continua proliferazione dei nostri pensieri (ricordi, idee, progetti, immagini,
fantasie, ossessioni, ecc.).
Tale attenzione viene anche definita “presenza
mentale”, in quanto siamo presenti al nostro stesso essere qui e ora, senza
allontanarcene, così come facciamo di solito per inseguire le nostre attività
pratiche e mentali.
Lo sviluppo della presenza mentale non
consiste nel pensare ancora di più ai massimi problemi, ma semmai esattamente
il contrario: liberarsi delle troppe idee per ritrovare un’esperienza primaria.
In tal senso potremmo parlare di “vuoto mentale”.
Potremmo anche usare le espressioni “tornare
a sé” o “sviluppare la consapevolezza” – intendendo non la consapevolezza di
questo o di quello, ma del nostro semplice essere. Siamo e basta.
E potremmo anche usare la parola “risveglio”,
perché quando compiamo questa operazione è come se ci risvegliassimo da un
lungo sonno: smettiamo di sognare e scopriamo, talvolta con uno shock, che
eravamo stati assenti.
Dove eravamo andati? Lontano da noi
stessi.
Insomma, siamo partiti da una cosa così
semplice come l’attenzione al respiro per arrivare alla consapevolezza del
nostro essere, con tutto quello ne consegue. Il viaggio è lungo e breve nello
stesso tempo. Lungo perché eravamo andati molto lontano, breve perché ciò che
cerchiamo ci è più vicino della nostra vena giugulare.