Il nostro sguardo non è mai innocente. Quando guardiamo qualcosa, noi la
etichettiamo, la valutiamo e la interpretiamo. Risultato: non vediamo mai le
cose così come sono, ma solo nostre rappresentazioni. Se questo vale per gli
oggetti, vale a maggior ragione per le esperienze più complesse, come i fatti e
gli avvenimenti.
Ricordiamoci Rashomon o Pirandello.
Se per esempio siamo innamorati, proiettiamo sull’immagine della persona
altre immagini (quelle genitoriali, quelle delle precedenti esperienze che sono
già dentro di noi). Così l’immagine si colora e assume una tonalità che siamo
noi ad attribuirle.
L’esercizio contemplativo segue il percorso inverso. Toglie ad uno ad
uno gli strati sovrapposti (come le bucce di una cipolla) per vedere che cosa
c’è sotto.
Esercitiamoci con qualche oggetto.
Come?
Senza concetti, senza riferimenti, senza confronti, senza emozioni… per
quanto possibile.
L’esercizio è difficile ed è ancora più difficile quando l’oggetto è il
nostro stesso sé. Qui la soggettività deve guardare la soggettività.
Chi sarà mai così obiettivo da guardare senza interpretare, senza
aggiungere, senza giudicare, senza esprimere valutazioni, in una parola senza mente?
Dev’essere come uno sguardo che attraversi un vetro trasparente, senza
colori né distorsioni.
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