domenica 31 maggio 2015

La ricerca della felicità

Tutti noi siamo alla ricerca delle felicità o, perlomeno, di quel suo surrogato che è il benessere. Cercare la felicità ed evitare il dolore.
Ma questa ricerca ci dice tre cose: 1) non siamo felici, 2) siamo dominati dalla paura e 3) speriamo in un miglioramento. Tra questi tre poli si svolgono le nostre esistenze.
Se, però, compiamo un salto di qualità, comprendiamo che è molto meglio smettere di cercare la felicità, smettere di avere paura e smettere di avere speranza.

Questo è l’atteggiamento giusto per percorrere la via. Anzi, con questo atteggiamento, siamo già sulla via.

sabato 30 maggio 2015

Disinformazione religiosa

Sbaglia gravemente il Papa a mettere insieme la difesa della vita dei migranti con aborto e eutanasia. Un migrante non è né una persona non nata né un moribondo.
Questa è la tipica disinformazione cattolica che vuole confondere le menti deboli. Ed è una forma di violenza ideologica.
Una forma di violenza che vuole imporre e asservire.

Gli uomini devono essere liberi di decidere della propria vita. Non devono essere né schiavi né macchine da riproduzione in mano a qualche potere esterno.
Ma è esattamente questo che vogliono le religioni totalitarie, dal cattolicesimo all'islam.

Fede e meditazione

Chi ha una fede teista si aspetta che ci sia un Dio che lo salvi, lo giudichi e lo renda immortale.
Chi medita sa che la mente non ha né principio né fine e che ogni individuo ha la capacità di realizzare la natura luminosa ed eterna della mente.

Non c’è bisogno di nessun Dio. Ognuno è Dio di se stesso.

La trasmigrazione delle esistenze

Tutto quello che sei viene dal passato: il tuo carattere, i tuoi difetti, i tuoi talenti…il tuo DNA.
Esistenze passate – non necessariamente le tue. Ma tutte confluiscono in te, così come tanti torrenti che confluiscono in un fiume. Ora sono tue, si fa per dire. Ora sono te.
In tal senso, sei una reincarnazione: in te confluiscono parti di altre esistenze.

A tua volta, parti di te confluiranno in altre persone, che tu abbia o meno dei figli. Perché la confluenza, la “reincarnazione”, avviene anche con una trasmissione non solo materiale, ma anche culturale.

venerdì 29 maggio 2015

Il tradimento di Dio

E se anche Gesù fosse soltanto un essere umano, che cosa cambierebbe del suo messaggio? Sostanzialmente nulla.
Ma agli uomini non basta: loro vogliono deificare certe figure.
Al Buddha successe la stessa cosa: benché avesse dichiarato che era soltanto un uomo, alla fine fu considerato un essere divino e venerato come tale.
Ma, alla fin fine, tutti derivano dalla stessa fonte – e quindi sono esseri divini o semi-divini. Quando al-Hallag, e altri mistici, dichiarano: “Io sono Dio!” proclamano solo l’identità di fondo tra atman e Brahman. Una vecchia idea.
Oltretutto, forse mettere sugli altari qualcuno è un mezzo per farne un ideale irraggiungibile, qualcosa da adorare ma da non seguire. Un po’ come mettere le mani avanti, come marcare una distanza incolmabile, come stabilire un luogo sacro o una giornata del Signore. Come per dire: per un po’ mi dedico a te, ma poi me ne dimentico; tu stai lassù, ché io me ne sto quaggiù.
Si venera per tradire.
Il Buddha aveva precisato che anche gli dei, per raggiungere la liberazione finale avrebbero dovuto incarnarsi in esseri umani, perché solo in questa condizione intermedia ci si può realizzare. Gli dei, infatti, fanno una vita così beata e sono così soddisfatti che, tutti presi dalla droga dell’orgoglio e dall’ebbrezza della longevità, si dimenticano che anche il loro destino è segnato.
Anche il nostro Dio deve averlo capito. Se, alla fine, si è trasformato in un uomo.

Lui l’aveva capito e noi vorremmo essere come lui.

giovedì 28 maggio 2015

Lo sguardo limpido

Il nostro sguardo non è mai innocente. Quando guardiamo qualcosa, noi la etichettiamo, la valutiamo e la interpretiamo. Risultato: non vediamo mai le cose così come sono, ma solo nostre rappresentazioni. Se questo vale per gli oggetti, vale a maggior ragione per le esperienze più complesse, come i fatti e gli avvenimenti.
Ricordiamoci Rashomon o Pirandello.
Se per esempio siamo innamorati, proiettiamo sull’immagine della persona altre immagini (quelle genitoriali, quelle delle precedenti esperienze che sono già dentro di noi). Così l’immagine si colora e assume una tonalità che siamo noi ad attribuirle.
L’esercizio contemplativo segue il percorso inverso. Toglie ad uno ad uno gli strati sovrapposti (come le bucce di una cipolla) per vedere che cosa c’è sotto.
Esercitiamoci con qualche oggetto.
Come?
Senza concetti, senza riferimenti, senza confronti, senza emozioni… per quanto possibile.
L’esercizio è difficile ed è ancora più difficile quando l’oggetto è il nostro stesso sé. Qui la soggettività deve guardare la soggettività.
Chi sarà mai così obiettivo da guardare senza interpretare, senza aggiungere, senza giudicare, senza esprimere valutazioni, in una parola senza mente?

Dev’essere come uno sguardo che attraversi un vetro trasparente, senza colori né distorsioni.

mercoledì 27 maggio 2015

Espandere la consapevolezza

Bisogna capire-sentire-intuire cosa possa essere una coscienza superiore alla nostra. E già a questo punto, come dice Dante, “ a l’alta fantasia qui mancò possa…”
In ogni caso, è evidente che non tutti hanno lo stesso livello di consapevolezza, non solo nel salto tra uomini e animali, ma anche tra uomo e uomo – e perfino nello stesso uomo tra un momento e l’altro. Insomma esiste una certa variabilità, tra un minimo ed un massimo.
Ma come potremmo comprendere o raffigurarci un essere con una consapevolezza doppia, tripla o quadrupla? Secondo i tibetani, dopo la morte, la coscienza umana può arrivare ad essere sette volte più intelligente. Riusciamo a intuire qualcosa?

Che cosa significa essere più consapevoli? Innanzitutto avere un maggior grado di presenza mentale e di chiarezza.

Sei stati dell'essere

È la mente che crea gli stati mentali, positivi i negativi, ed è la mente che crea addirittura la dimensione nella quale viviamo. Gli avvenimenti “esterni” possono incidere più o meno, ma la tonalità fondamentale viene data dalla mente.
Nel buddhismo, per esempio, si parla di sei regni dell’essere: il regno degli dei, il regno degli dei gelosi, il regno umano, il regno animale, il regno degli spiriti affamati e il regno infernale. Il primo è caratterizzato da fortuna, felicità, potere e longevità, ma ha un grande difetto: l’orgoglio, la presunzione, il credersi chissà chi. Il secondo è come il primo, ma i suoi abitanti sono rosi dall’invidia verso gli esseri del regno superiore. Il terzo è una via di mezzo tra piaceri e dolori, conoscenza e ignoranza, stabilità e instabilità, ed è caratterizzato da desiderio, attaccamento e sofferenza; qui il piacere è paragonato al miele spalmato su una lama da rasoio. Il quarto è caratterizzato da paura, istintività, ignoranza e mancanza di auto-coscienza. Il quinto è caratterizzato da un appetito che non si sazia mai e quindi dall’avidità. E il sesto è contraddistinto da rabbia, odio, aggressività e dunque da una sofferenza continua.
È facile vedere in questa classificazione plastica non tanto sei regni materiali, quanto sei stati dell’essere che possono essere compresenti e variabili. Chi non ha provato in certi momenti felicità, orgoglio, invidia, gelosia, desiderio, attaccamento, paura, ignoranza, avidità, rabbia, odio e così via? E chi non conosce persone che possono essere paragonate agli abitanti dei sei regni buddhisti? Il ricco e potente, che si crede un dio; il mezzo ricco e mezzo potente che invidia il primo; l’uomo pieno di desideri; l’individuo animalesco; l’individuo avido e insaziabile; e l’individuo rabbioso e aggressivo?
Nel nostro regno, il regno dell’instabilità e del desiderio, tutto ciò è evidente; come è evidente che qualcuno vive a lungo ed altri muoiono presto.
Ma bisogna sottolineare che ad ogni regno o ad ogni individuo corrisponde la prevalenza di uno di questi sei stati mentali. È la mente che crea il mondo in cui ciascuno vive; ed è al mondo in cui si vive che corrisponde una certa mente.


martedì 26 maggio 2015

Di fronte alla morte

Di solito di fronte ad una persona che sta morendo o che è appena morta, non sappiamo che cosa fare, che cosa dire, che cosa pensare, e siamo invasi da dolore, angoscia e disperazione.
Un aiuto viene dalla tradizione del buddhismo tibetano che ci consiglia, in questi casi, di ripetere mentalmente il mantra OM MANI PADME HUM, il più importante e il più antico.
Al di là del significato letterario, si tratta di parole di incoraggiamento e di augurio, sia per il defunto sia per chi vive il lutto. Non sono parole qualsiasi, come quelle di una preghiera, ma suoni che hanno un valore in se stessi. Il primo e ultimo suono sono le sillabe germinali. Gli altri due indicano il “gioiello del loto”, ossia il loto della coscienza umana, della mente che genera la volontà di illuminazione e il desiderio di liberazione (bodhicitta).
In pratica, la ripetizione del mantra sanscrito svolge dapprima la funzione di fornirci un contenuto mentale e poi quella di produrre una sensazione di pace e di compassione attiva.
In tal modo si augura e si favorisce in se se stessi e nel morto la capacità di superare la fase di paura e di confusione che segue la morte.
Da una parte, insomma, generiamo in noi uno stato d’animo positivo, e dall’altra parte cerchiamo di proporre (anche al defunto) un aiuto in un fondamentale passaggio (bardo).
E, poiché noi attraversiamo continuamente fasi di transizione (da un momento all’altro, da un’età all’altra, da uno stato d’animo all’altro, ecc.) il mantra può esserci sempre utile.
Ne esistono anche molte versioni cantate: basta andare su Youtube.

lunedì 25 maggio 2015

Gli inutili insegnamenti

Papa Francesco ha dichiarato che la prima guerra mondiale è stata “un strage inutile.”
È ovvio: tutte le guerre lo sono.
Anche le crociate indette dalla Chiesa.
Ma la domanda è: come mai le due più sanguinose guerre mondiali si svolsero tra popoli cristiani?
Non è la dimostrazione che il messaggio evangelico è fallito, non essendo mai penetrato oltre la superficie di una religiosità di facciata? E, oggi, che cosa potrebbe cambiare le cose?
La verità è che nessuna religione (si pensi all’islam attuale) è mai riuscita a cambiare la natura profonda dell’essere umano che resta quell’essere belluino, istintivo e reattivo che è sempre stato. Se ci si pensa, questa natura profonda può essere cambiata solo da una presa di coscienza individuale, non certo da qualche comandamento o precetto imparato a memoria e ripetuto nelle chiese, nelle moschee o nei convegni interreligiosi sulla pace.
Il problema è che simili cambiamenti non possono certo essere indotti dall’esterno, ma solo dall’interno – e solo dopo un lavoro di auto-conoscenza e uno sforzo consapevole. Insomma ci vogliono un’applicazione, una capacità di comprensione e un’intelligenza che nessun miracolo né nessun Dio potranno mai fare.

Solo l’individuo che si impegna ed ha raggiunto un certo livello di consapevolezza può fare il miracolo.

domenica 24 maggio 2015

La palla al piede

Dunque, anche la ultracattolica Irlanda ha votato sì al matrimonio fra gay. Tutti i paesi avanzati, tranne l’Italia, si sono aggiornati. E da noi?
Da noi la Chiesa impedisce ogni riforma, dimostrando che è proprio lei la catena al piede dello stivale italiano. È la cultura cattolica, conservatrice e reazionaria, che fa da ostacolo alla modernizzazione del paese.
Subito i ministri e parlamentari bigotti, incapaci di pensare con la propria testa, hanno messo le mani avanti. Per esempio, Alfano, il pessimo ministro dell’Interno, uno che ha fallito tutti i suoi interventi, uno che fa manganellare gli scioperanti ma lascia liberi i black bloc,  ha detto: “Sì alle unioni civili, ma no all’equiparazione al matrimonio!” E perché no, di grazia?

Ah già, perché così vuole il Papa.

Sull'amore di sé e degli altri

Non prestate ascolto a chi ti invita ad amare gli altri disprezzando te stesso. È sbagliatissimo.
Prima amare se stessi e poi gli altri; prima avere compassione di sé e poi degli altri. O comunque contemporaneamente. Ma l’una cosa non esclude l’altra. Tutt’altro, l’una cosa è complementare all’altra e la rafforza.
Chi non ama se stesso non può amare gli altri; lo farà come un dovere. Chi non ha compassione di sé, come può aver compassione degli altri? In realtà, nel profondo, li odierà.
Si tratta di una legge naturale, di un fondamento psicologico.
Se ami gli altri ma non ami te stesso – o perché odi te stesso -, non andrai lontano: resterai un essere malato.
Se hai compassione degli altri, ma tratti male te stesso, ti giudichi male e ti riempi di improperi, stai sbagliando. Dal momento che sei in vita, devi vivere.
Così sbagliano tutti quei “religiosi” che, per dedicarsi agli altri, non si curano di sé. In realtà soffrono di problemi irrisolti nella formazione del sé. Non è vero che, per amare il prossimo o Dio, uno non debba provvedere alle proprie esigenze. Chi ti spinge a farlo, è qualcuno o qualche istituzione che vuole appropriarsi di te, che vuole possederti, farti schiavo.
La “rinuncia al sé” di cui si parla nelle spiritualità è semplicemente la rinuncia all’egoismo, che è il contrario del soddisfare le proprie esigenze naturali di amore. L’egoista, infatti, è un uomo avaro – anche di sé. Mentre la natura, e dunque Dio, vuole che tu viva a pieno, non a metà.

La vita è preziosa. E non ti chiede mai di rinunciare. Se rinunci alla vita piena, non puoi essere un individuo (“non diviso”) completo. Sei un fallito. Sei uno che ha sprecato l’occasione che gli è stata data.

sabato 23 maggio 2015

Moto perpetuo

Gli uomini soffrono di una specie di ballo di san Vito: devono muoversi incessantemente.
Ma, come aveva ben capito Schopenhauer, devono essere attivi fuori perché dentro sono inattivi.
Si spostano come mandrie in cerca di nuovi pascoli. Non hanno ancora capito, poveri sciocchi, che non è il panorama o il cielo che devono cambiare, ma quello che hanno dentro: un’osservazione che aveva già fatto Seneca.
Gli uomini si muovono tanto perché sono annoiati di se stessi, perché non sopportano di stare in compagnia di se stessi. Pascal diceva che “tutta l’infelicità dell’uomo deriva dal non essere capace di starsene solo nella sua stanza”. E, in effetti, in esperimenti fatti di recente, qualcuno ha preferito infliggersi scosse elettriche che rimanere in solitudine troppo a lungo.

E poi pretenderebbero di avere un’anima immortale! Che cosa se ne farebbero, lassù in Paradiso, dove l’unica attività è contemplare Dio?

La pervasitività della coscienza

Tutti gli esseri viventi sono dotati di coscienza, seppure in modalità e quantità diverse. Tutti hanno il senso di sé e degli altri. Non solo gli animali, ma anche le piante. Ovunque c’è vita, c’è coscienza.
Anzi,le piante ci dimostrano che si può essere consapevoli senza avere un cervello centralizzato, come il nostro.
L’uomo si definisce il “re del creato”. Ma è pura presunzione. Si definisce “individuo”, non diviso, e infatti una mano o una gamba non possono crescere separatamente.
Non così, però, nelle piante, dove l’individuo è divisibilissimo e ogni sua parte è capace di vivere autonomamente e di riprodursi.
Certe piante possono vivere migliaia di anni e, pur non avendo un cervello, sanno benissimo chi sono e che cosa vogliono, hanno emozioni e sanno benissimo riprodursi – molto meglio dell’uomo. E hanno una modernissima struttura a rete, che noi oggi cerchiamo di imitare.
Chi sopravvivrà? Chi è fatto per durare?
Le piante sono potenzialmente eterne. E l’uomo?


La concentrazione d'accesso

Le vie d’accesso sono molteplici. Talvolta è la calma estrema delle emozioni, che nasce come quando di colpo cala il vento in mezzo al mare.

Ma talaltra è il tumulto estremo delle emozioni, che non lascia il tempo di ragionare, che spazza via ogni altro pensiero e ci mette di fronte alla natura della realtà - pura, spietata, limpida.

venerdì 22 maggio 2015

L'indifferenza

Mi domando chi si trovi al comando dei droni che seminano morte dal cielo. E che tipo di addestramento riceva.
Addestramento a uccidere, senza tropo rimorso. Dall’alto, come Dio.
Un atteggiamento proprio da Dio: premo un bottone e decido chi morirà.

Quando vedete qualcuno che muore di colpo o dopo una più o meno lunga malattia incurabile, non avete l’impressione che qualcuno dall’alto lo abbia deciso, con la stessa indifferenza di chi dirige i droni?

Dio è amore?

Non sopporto più gli invasati che vengono a proclamare che Dio è amore.
Sarà amore, ma è anche odio.
Sarà pace, ma è anche guerra.
Almeno, se Dio è il Principio di tutto questo.

Lasciamo perdere i sentimentalismi, la retorica, l’entusiasmo e le droghe mentali. E guardiamo semplicemente come vanno le cose.

Il sogno della pace

La pace sembra proprio un sogno impossibile. Perché è una questione di quiete interiore. Dice bene il monaco buddhista vietnamita Thich Nhat Hanh: “Non esiste una strada per la pace. La pace è la strada”.
Questo significa che la guerra, lo scontro, la competizione è in realtà una conseguenza esteriore di un’aggressività interiore. E che non serve a niente predicare la pace se non la si crea prima dentro di sé.
Ma dentro il nostro cuore non c’è pace. Siamo divisi e in lotta anche lì. E, soprattutto, siamo convinti che solo la contesa porti la prosperità.
È la nostra cultura, la nostra religione, che non ha pace. È lì che non riconosciamo il valore della quiete.
Prendete per esempio i combattenti dell’Isis. In che modo potreste convincere questa gente del valore della calma e della tranquillità?
Ecco perché siamo condannati a vivere nella tensione continua. Lo faremmo anche se per miracolo interrompessimo tutte le guerra. Continueremmo a competere, magari sul piano economico o sportivo.

Dio è amore? No, Dio è guerra.

giovedì 21 maggio 2015

IL senso del sé: la nostra identità

Se tutto ciò che percepiamo e pensiamo è un prodotto della mente (nel senso che tutti i dati devono passare ed essere interpretati da questa centralina di controllo), a maggior ragione lo è il nostro senso del sé. Io sono…
È chiaro che il senso del sé è in gran parte un prodotto mentale.
Questa idea corrisponde solo vagamente a ciò che siamo. Noi stessi sappiamo solo confusamente chi siamo. E, per gli altri, che vedono solo un corpo e le espressioni di emozioni e di pensieri, è ancora peggio.
Nessuno ha un senso pieno del sé. Perché il sé è, tra le esperienze mentali, la più illusoria. Dura un po’, tra le nebbiee i vapori, e poi si dilegua – come un miraggio.
Che cosa c’è di più incerto e labile di questo senso? Eppure è di esso, su queste fondamenta fragili, che si basa il nostro essere. Non un pieno essere, ma un segnale vago.

Dobbiamo abituarci a questa incertezza. Fra l’altro, chi ha un senso roccioso di sé, è il più illuso e fragile di tutti. È il più ignorante.

Lo spettacolo del mondo

Contemplare la vacuità della mente e del tutto non significa guardare una mente o una realtà vuota o addirittura inesistente. Ma una mente che è come uno schermo (per esempio quello di un monitor) su cui può apparire qualunque cosa. Non un vuoto assoluto, dunque, ma un vuoto pieno di potenzialità.
Anzi, quel vuoto è la controparte e il fondamento del pieno vitale.
Il vuoto non è il fine della meditazione. Il fine della meditazione è l’atteggiamento contemplativo del lasciar andare.
In altri termini, contemplo tutto ciò che appare sullo schermo-mente vedendolo passare per quel che è: un insieme di segnali che presto se ne andranno e lasceranno lo spazio ad un altro insieme o allo spazio vuoto delle innumerevoli possibilità.
Imparare a guardare ogni evento, buono o cattivo, piacevole o spiacevole, come uno spettacolo transeunte, benché significativo.

Voi guardate tutto ciò che appare sul monitor, ben sapendo che presto passerà e che alla fine c’è solo lo schermo luminoso.

mercoledì 20 maggio 2015

Hatha Yoga

Non un semplice movimento fisico, ma contemporaneamente un moto mentale.
Ci dev’essere una perfetta sincronia e unione psico-fisica. Per esempio, dopo essere stati a lungo seduti e concentrati in un lavoro, alzarsi, sgranchirsi e stirarsi potentemente, con il corpo e con la mente. Compiere istintivamente un movimento dell’hatha yoga.

In quel momento, nessun pensiero. E si sente il prana che scorre nel corpo.

La logica dei miracoli

Leggevo un articolo di Vittorio Messori, il noto scrittore cattolico, specializzato in “miracolistica”, nel senso che vede miracoli dappertutto.
Dunque, c’è un sommergibile peruviano, il Pacocha, che nel 1988 sta affondando in seguito ad una collisione e il vice-comandante, ferito, vede una luce prodigiosa in cui appare una santa, Suor Maria di Gesù Crocifisso, della quale aveva già visto un’immagine sulla copertine di un libro. Immediatamente viene investito da una forza prodigiosa e riesce ad aprire il portello, che era rimasto aperto e bloccato mentre il sommergibile si inabissava, e salva l’equipaggio.
Miracolo, perché, secondo Messori (che ha fatto calcoli precisi), non era possibile che un uomo aprisse quel portello.
Può darsi. Ma l’idea di Messori e dei credenti nei miracoli è che ci sia un intervento esterno di qualcuno: santi, Gesù o Dio stesso. Però nessuno vede una mano che scende dall’alto. Quello che in realtà percepiscono i sedicenti miracolati sono sempre visioni interiori.
Questo è il punto. Manca sempre la prova che qualcuno di questi fenomeni provenga dall’esterno, da un’altra persona.

Tutto avviene all’interno della mente, la quale peraltro, in condizioni eccezionali, può sviluppare una forza prodigiosa. Non è una novità.

martedì 19 maggio 2015

La luna nello stagno: l'esperienza nella meditazione

Quando parliamo o leggiamo di luminosità, chiarezza, spaziosità, profondità, vacuità, pace, liberazione, risveglio, vuoto mentale, ecc., usiamo semplici concetti e veniamo capiti o comprendiamo in senso intellettuale. Ma non dobbiamo restare a questo semplice livello simbolico.
Dobbiamo fare un’esperienza concreta.
In meditazione, ciò che conta è l’esperienza. Naturalmente, spesso non è un’esperienza piena, ma un’intuizione breve e parziale. È un po’ come una traduzione approssimativa o una visione lontana, dove ciò che risulta è una diminuzione e comunque un riflesso del senso originale.
Ma è già qualcosa. È così che s’inizia.
Tutto sta nel non scambiare questo pallido assaggio per il vero dolce. Come si dice nello Zen, non dobbiamo scambiare il riflesso della luna nello stagno per la luna nel cielo.

Ma il riflesso è pur sempre qualcosa che appartiene alla luna.

I martiri della modernità

In Turchia hanno sparato alla testa ad una ragazza diciannovenne perché partecipava ad un talent show. Pare che fosse stata minacciata dal clan del padre.
Anche in India, nel sedicente Stato Islamico (IS) e in tante altre parti del mondo, tutti i giorni le donne (e anche gli uomini) vengono torturate, stuprate e uccise – se appena appena dimostrano un minimo di autonomia.
Tutte le religioni hanno i loro martiri. Ma un giorno qualcuno dovrà stilare un elenco delle persone uccise perché volevano un po’ di modernità, perché volevano uscire dai limiti della tradizione più bigotta e della conservazione più bieca.
Sarebbe un elenco interminabile, molto più lungo di quello dei santi.
Peccato che questa religione non abbia neppure un nome. Eppure anch’essa ha un Dio: chiamiamolo “evoluzione creatrice” o spirito innovatore.

Qual è il suo Satana? Lo conservazione, la tradizione.

lunedì 18 maggio 2015

La consapevolezza oltre la morte

Qualcuno ha una paura ossessiva della morte, e questa è una vera e propria fobia – che più che con la morte ha a che fare con le insoddisfazioni in vita.
Certo, l’essere cosciente, quando pensa che un giorno tutto si spegnerà e lui finirà nel nulla, è preso da sgomento. Ma, se tutto finisce nel nulla, se la coscienza si spegne e poi c’è solo l’incoscienza, vuol dire che non ci sarà neppure un io a soffrirne. Come diceva Epicuro, se ci sono io non c’è la morte e se c’è morte non ci sono io.
Se però la coscienza non si annulla del tutto, ma rimane una forma di consapevolezza, svincolata dal cervello fisico, allora perché non sperimentarla già adesso? A questo serve la meditazione.
Per far ciò, dobbiamo rimanere calmi e lucidi e armarci di coraggio. Quindi dobbiamo approfondire tutti gli intervalli in cui la coscienza normale è disattivata, per esempio nella pausa tra un pensiero e l’altro, tra un respiro e l‘altro, tra la veglia e il sonno e sviluppare stati di forte concentrazione approfittando magari dei momenti in cui l’attività concettuale è minima (quando ci si lava la faccia o i denti, quando si fanno certi movimenti fisici, quando si fa l’amore, ecc.).
Qui c’è una consapevolezza senza oggetto, una consapevolezza pura e nuda, una consapevolezza senza pensieri. Esiste dunque una distinzione fra la coscienza abituale (quella di essere o di fare) e la consapevolezza non concettuale, la pura attenzione.
Questa pura consapevolezza è come il permanere dello schermo luminoso di un televisore quando non vengono trasmessi programmi. Con la differenza che c’è un senso di sollievo e di liberazione.
Questa pura luminosità consapevole è il fondamento dell’essere stesso, quel fondamento che dev’essere interrogato prima e dopo la vita di ogni singolo essere. È lo schermo luminoso su cui viene proiettato il film individuale.
Riuscire a ritrovarlo è identificare lo stato oltre la mente, oltre la morte.


domenica 17 maggio 2015

Il "religioso"

Per noi il “religioso” è sinonimo di buono. L’individuo religioso è colui che fa del bene, che ama il prossimo, che si sacrifica per gli altri, ecc.
Ma essere buoni è relativamente facile. Anche un idiota può esserlo. E lascia il tempo che trova.
Più difficile è capire qualcosa, è strappare un segreto alla natura, è vedere le cose con chiarezza. I santi sono tanti. I Newton, gli Einstein, i Darwin, i Galilei, i Pasteur, i Freud o i Buddha sono pochi.
Ma chi riesce a far progredire di più l’umanità?
Qual è la vera religione?

La questione è aperta.

Beatificazioni politiche

Lo Spirito Santo ha le sue contraddizioni.
Dopo 35 anni che la Chiesa ha fatto di tutto per cancellare la “teologia della liberazione” e i suoi esponenti, ecco che all’improvviso ci si accorge che monsignor Romero è stato un vero martire, un uomo ucciso proprio sull’altare. E allora si riapre la causa della sua beatificazione.
Ma, si sa, lo Spirito Santo è come il vento che soffia dove vuole – ora a destra ora a sinistra.
Quando c’era un Papa che odiava il comunismo perché aveva schiacciato la sua Polonia, i preti di sinistra venivano visti come fumo negli occhi, perseguitati e cacciati. Ed ora che c’è un Papa dell’America Latina, la Chiesa non può farci sfuggire l’occasione per imbastire qualcuna di quelle belle cerimonie di cui è maestra.
Ma perché presentare Oscar Romero come un martire della fede? In realtà è stato un martire del fascismo, quella latino-americano e quello clericale che combatteva ogni parvenza di marxismo.

E mai nessuno che ammetta gli errori. Tutti santi, tutti morti.

sabato 16 maggio 2015

Dimorare nella mente

In meditazione ci si può focalizzare su qualsiasi cosa, su qualsiasi esperienza, materiale o immateriale. Ma l’oggetto migliore resta la mente stessa.
Concentriamoci per esempio su pensieri, immagini, forme, emozioni… Dove avvengono? Nel cervello o fuori? E che consistenza hanno? Impulsi elettrici, cambiamenti chimici… che altro?
Noi utilizziamo ad ogni istante la mente, ma non sappiamo che cosa sia. Che cos’è un pensiero? Che cos’è un’emozione? Che cos’è la coscienza? Che cos’è uno stato d’animo?
Sappiamo che sono stati che vanno e vengono continuamente “dentro” di noi, e supponiamo che siano una risposta ad eventi “esterni”. Esprimono tutta la nostra esperienza. Ma in realtà hanno poco di solido. Se un’immagine sembra prevenire dall’esterno, un’emozione è un prodotto nostro, è un’elaborazione interna.
Anche la distinzione fra dentro e fuori è incerta. Ci dicono che qualcosa avviene là fuori e poi si riflette nel nostro cervello. Però non abbiamo la possibilità di ricevere questi impulsi e quindi di apprendere la realtà esterna se non passiamo attraverso il cervello. Dunque, ogni cosa percepita è in effetti nel nostro cervello.
Ora, il cervello sembra l’organo fisico in cui si ricevono e si elaborano queste informazioni. Ma noi non percepiamo il cervello, non distinguiamo la zona o la sinapsi cerebrale coinvolte in una data esperienza. La nostra esperienza non è dunque il cervello - è la mente.
Se contempliamo la mente – ossia i pensieri, le percezioni, i sentimenti, gli stati d’animo, ecc. – osserviamo segnali che passano come su uno schermo. Qual è la loro natura?
Esaminiamo lo schermo-mente così come contempliamo lo schermo di un televisore. Vediamo scorrere tutti gli eventi, e l’uno segue l’altro.
Possiamo però capire che si tratta di segnali discontinui: ne appare uno, transita e scompare; e poi ne arriva un altro… Ma qual è la natura di questo schermo-mente? E qual è il suo rapporto con il cervello? Gli scienziati esaminano questa o quella zona del cervello e sanno dirci quale sia la zona della parola o dell’udito. Ma dove si trova la zona della mente intera, del senso dell’io?
Come può avere questo ammasso di materia cerebrale consapevolezza di se stesso? Quando esaminiamo la mente, dove avviene fisicamente questa operazione?
Non lo sappiamo.
L’unica cosa che sappiamo è che siamo coscienti e che possiamo fare della coscienza stessa l’oggetto della nostra osservazione. Queste sono certamente funzioni superiori.
A questo livello opera la meditazione. Noi osserviamo non solo la sfilata degli eventi, ma anche l’intero schermo su cui avviene.
Nel momento in cui ci focalizziamo sull’intero schermo (meta-consapevolezza), cogliamo anche le interruzioni, le pause, le discontinuità tra un evento e l‘altro, e possiamo esaminare per brevi istanti lo schermo stesso. Proprio come in un televisore, nel momento in cui scompare ogni segnale, rimane accesa un’unica luminosità… pronta a cogliere ogni variazione di luce, di colore e di suono.

Questa luminosità dello schermo-mente è la natura ultima cui possiamo accedere. Ed è anche la natura ultima della realtà stessa.

venerdì 15 maggio 2015

La lingua del futuro

Si domandava il grande saggio cinese Chuang-tzu: “Potrò mai incontrare un uomo con cui conversare senza parole?”
Non si tratta però di comunicare limitatamente, come facciamo con un cane, ma di comprendere ancora più a fondo.
Noi parliamo più per nascondere che per comunicare (anche con noi stessi); e spesso le parole sono solo suoni superficiali che non riescono ad esprimere ciò che vorremmo, per esempio certe emozioni, certi stati d’animo.
Si tratta allora di capire oltre le parole.
C’è un linguaggio che non corrisponde alla lingua parlata, perché esprime qualcosa che le parole non riescono a contenere. Ogni volta dobbiamo fare una traduzione, che però impoverisce il senso, lo semplifica.
Proviamo dunque a conversare (anche con noi stessi) senza parole. Mettiamoci in silenzio senza scambiarci i soliti convenevoli, i soliti luoghi comuni, i soliti suoni, le solite frasi fatte. “Guardiamoci” senza aprir bocca. Anzi, guardiamoci solo con la coda dell’occhio o non guardiamoci affatto: sentiamo la presenza.
Quando pensiamo o proviamo qualcosa, in realtà stiamo comunicando prima di tutto con noi stessi. E spesso non utilizziamo le parole. Le parole vengono dopo, e riducono il senso.
Il linguaggio veicola la mente ordinaria. Ma l’ascolto meditativo veicola l’oltre della mente.
Di solito, ciò che comunichiamo è semplice informazione di servizio. Ora proviamo a far esprimere e ad ascoltare le anime.
Apriamo non la bocca, ma la mente. Andiamo oltre lo steccato-filtro del pensiero concettuale.
Dedichiamoci alla meditazione silenziosa della comunicazione senza parole, prima con noi stessi (già difficile) e poi con gli altri (ancora più difficile, ma non impossibile).
Quando vogliamo capire profondamente chi sia l’altro o i nostro stesso sé, usiamo forse parole?

La lingua del futuro sarà più simile alle vibrazioni della musica o della luce che alle attuali lingue parlate.

giovedì 14 maggio 2015

Il prezzo della vita

Ci sono persone che farebbero qualunque cosa per vivere in eterno, anche ripetendo sempre le stesse cose. E ci sono persone che sentono il bisogno di superare questo stadio della vita.

Due tipi di persone. Quelle che sono sempre animate dal desiderio, e che s’illudono che il piacere non abbia un prezzo, e quelle che sono sazie di vita e di morte, di felicità e di infelicità – quelle insomma che ne hanno abbastanza del mondo. E che non ci ritornerebbero nemmeno se potessero.

mercoledì 13 maggio 2015

Prove di coinvolgimento

Perché è così importante sviluppare la calma? Perché la calma permette la stabilità mentale. E la stabilità ci permette di stare concentrati su ciò che vogliamo.
In effetti la nostra mente è una specie di sughero sballottato dalle onde, dove le onde sono gli eventi esterni ed interni. Vige in noi una continua confusione mentale. Sono gli eventi che decidono che cosa fare della nostra mente, e non viceversa.
Proviamo, di fronte alle provocazioni e agli stimoli, a non farci coinvolgere, almeno per un po’. Rimaniamo non reattivi. Sarà un’esperienza sconvolgente. Perché tutto ci porta, di solito, al coinvolgimento.
Pensiamo ad una semplice interazione sociale, ad un dialogo. Ogni domanda, ogni richiesta, il fatto stesso di relazionarci, richiede una risposta. Ma, in tal modo, noi siamo condizionati, trascinati e sballottati, senza averlo deciso. Lo schema di reazione è predefinito.
Decidere di non reagire, almeno per periodi o casi determinati, è già una forma di non coinvolgimento e quindi di liberazione. Il non coinvolgimento, inoltre, ci permette di fare chiarezza, di vedere le cose anziché subirle.
Al di là di questi effetti, noi abbiamo bisogno di uscire dagli schemi di comportamento e di pensiero condizionati. Usciamo per un po’ dalla paura, dall’ansia, dalla tensione, dalla sofferenza, ecc, per approdare alla serenità, alla spaziosità, alla chiarezza, alla gioia – ad un reale dominio di noi stessi.

Tutto questo deve essere fatto nel quadro di un addestramento meditativo.

martedì 12 maggio 2015

Fare esperienza della realtà ultima

La meditazione è l’unico mezzo che abbiamo a disposizione per farci un’idea personale della natura ultima della realtà. In tal senso è una forma di mistica, che ogni individuo può utilizzare.
L’atteggiamento di base è proprio questo: voglio vederci chiaro su questo problema – il problema della vita.
Se ci affidiamo alle religioni, non avremo mai la possibilità di fare un’esperienza personale. Avremo solo risposte convenzionali la cui fondatezza non potremo mai verificare. Non disporremo di esperienze dirette, di prima mano, ma soltanto articoli di fede veicolati da mediatori interessati, che a loro volta non hanno nessuna esperienza diretta.
In meditazione si parla di natura ultima e non di Dio, perché risulta subito evidente – a chi medita – che quella di Dio è un’invenzione umana, un tentativo di costruire una trascendenza a misura (e a interesse) umano. Ma Dio non è un essere umano, non è neppure un ente pensabile. E un giorno penseremo a queste religioni come oggi pensiamo alle religioni pagane: miti privi di qualsiasi fondamento.
Di Dio si parla solo quando le cose vanno bene. Ma quando arriva un terremoto, un’epidemia, un tornado, una guerra, una crisi apocalittica o uno sterminio, dov’è questo Dio? Non c’è mai.
L’idea di Dio veicola una perniciosa illusione. Che ci sia qualcuno che vegli su di noi e sul pianeta Terra. Ma se arrivasse un meteorite capace di distruggere mezza Terra, e di cambiare di colpo il clima, innestando fenomeni apocalittici, crediamo davvero che scenderebbe dal cielo il dito di Dio a spostarlo?
Per la cronaca, è già successo in passato. E non si è visto nessun intervento divino.
Gli ebrei ci raccontano che, quando fuggirono dall’Egitto, Dio intervenne ad aprire le acque del Mar Rosso. Ma, quando furono deportati dagli antichi romani, e quando furono sterminati dai nazisti (storia e non mitologia), nessun Dio li ha aiutati.
Dunque, l’unica possibilità di capire qualcosa resta affidata non ai miti religiosi, ma alla nostra piccola mente, alla nostra consapevolezza – ammesso che si sappia come procedere.
Non ci sono altre possibilità per sfruttare l’occasione che abbiamo avuto – quella di aprire gli occhi e di guardare.

Il resto sono fantasie e ubbie.

lunedì 11 maggio 2015

Tensione e liberazione

Rilassamento (o calma) è la parola chiave. Noi pensiamo che meditare sia uno sforzo, un impegno, un lungo lavoro. Dobbiamo invece imparare a riposarci, a rilassarci e a vivere il momento presente.
Ciò che ci ostacola è l’accanimento, la frenesia, il pensiero ossessivo, la fatica. Il massimo ostacolo è la tensione. Noi siamo sempre in tensione, perché crediamo di dover difenderci, controllarci, indirizzarci o ottenere una meta. E, invece, la meta, lo stato di liberazione, è già presente.
Liberarsi è uscire dalla tensione. Avete mai avuto paura di un esame o di una prova, per poi scoprire che l’avete superato con successo? Che grande sollievo! La paura e la tensione spariscono in un attimo. E ci si sente felici.
Questa è l’esperienza di liberazione.
Ma noi abbiamo sempre l’idea di dover superare un esame, perché così ci è stata impostata la vita. Esami a scuola, esami a religione, esami sul lavoro, esami in campo sessuale, esami ad ogni passo. In tal modo, la tensione esistenziale non ci abbandona mai. E vanamente sogniamo la liberazione. Quante facce amareggiate in giro! Quante espressioni preoccupate!
Ma chi ci imprigiona?

È la nostra stessa mente, che è ormai incapace di rilassarsi, di essere nel momento presente.

Rilassarsi

Noi siamo convinti che, per ottenere la liberazione, dobbiamo cambiare noi stessi, diventando delle specie di santi. Ma questo non è necessario. Se lo scopo è eliminare ogni idea di ego e ogni pensiero disturbante, ciò avviene all’interno di qualsiasi esperienza autentica. Se per esempio proviamo rabbia o amore, nel momento stesso in cui proviamo una di queste passioni, usciamo sia dal nostro ego sia dai nostri pensieri. È un istante di pura liberazione.
Il problema è che noi o lottiamo contro queste passioni o cerchiamo di reprimerle. Ma, se le accettassimo fino in fondo e vivessimo il momento presente, faremmo già un’esperienza di liberazione. Scopriremmo che ogni autentica e forte esperienza contiene in sé un fattore di risveglio.
Facendo la nuda esperienza delle nostre emozioni, troveremmo uno stato di libertà che è lì da sempre.
Le emozioni e i pensieri sono già liberi, e vanno e vengono come vogliono. Siamo noi che non siamo liberi, perché vorremmo attaccarci a qualcosa o trasformare qualcosa. Quasi nessuno accetta i propri stati d’animo e vede in essi una via di liberazione. Tutti vorrebbero essere quelli che non sono. Questo è il dramma.
Ma, se si scende al fondo di un’esperienza, così com’è, senza tentare di cambiarla, di eliminarla o di prolungarla, scopriremmo che siamo già liberi.
In tal senso, anche il concetto di liberazione o di illuminazione è un grande ostacolo.

Dobbiamo invece rilassarci nell’esperienza ed essere semplicemente presenti in essa, senza preconcetti e senza giudizi.

domenica 10 maggio 2015

Lo sguardo

Secondo alcune tradizioni meditative, lo Dzogchen e la Mahamudra, lo sguardo deve essere aperto e deve essere rivolto direttamente davanti a noi. Secondo il Mahayana e l’Hinayana, deve essere rivolto verso il basso, intravedendo magari la punta del naso. Secondo il Vajrayana, deve essere rivolto in su, verso lo spazio o verso la corona della testa.
Ma è meglio non guardare proprio niente, nessun punto. L’importante non è guardare qualcosa, così come si fa nella contemplazione di un oggetto o di un panorama, ma non fissare gli occhi su nulla. Lo scopo infatti è trascendere ogni percezione e lo stesso pensiero concettuale.
Chiudiamo dunque gli occhi e concentriamo lo sguardo non dove si trova qualcosa, ma nel punto in cui la mente smette di ragionare e rimane soltanto una consapevolezza.
È difficile indicarlo a parole, dato che non si tratta di trovare un’immagine o una direzione. Provate a trovare la posizione (di non-mente) quando ad occhi chiusi vi lavate la faccia o quando vi chinate sulle mani e sulle ginocchia, abbassandovi e rialzandovi più volte. Lo sguardo smette di guardare oggetti fisici e trova una posizione dove “guarda” la parte interna del sé, l’interno della mente – e la mente pensante si blocca.

Lì è la prova che può esserci presenza o attenzione o consapevolezza – senza pensieri.

sabato 9 maggio 2015

La massima virtù

La calma è non re-agire al mondo. E, se non reagisci al mondo, vedi con chiarezza tutte le cose, te stesso e gli altri. È come guardare in una limpida mattina di primavera.
La calma è non con-sonare con le vicende, ma guardarle con distacco. Anche quelle che succedono a te.
Allora il mondo ti appare come un palcoscenico su cui si svolgono commedie e tragedie, tutte comunque inconsistenti. Vite e morti, amori e passioni, gioie e dolori, beni e mali, grandezza e presunzione, orgogli e opinioni… che cosa sono?
La calma è come non avere un io e, quindi, guardare le cose, senza l’interferenza e le interpretazioni della mente.
La calma è un’immensa vacuità, accogliente, che non parteggia.
La calma si adatta ad ogni cosa, senza influenzare né farsi influenzare.
La calma è dunque obiettività – cosa ignota agli uomini comuni.
La calma è creatività, perché è come un pozzo senza fondo che può contenere tutto.
La calma è comprensione, in tutti i sensi – nel senso che capisce e che dà accoglienza.
La calma è infinita pazienza, e non c’è niente che non si possa ottenere con la pazienza.
La calma è pace.
La calma è una virtù divina.

Prova a essere calmo, a non volere per forza qualcosa, a essere al di sopra e al di là degli eventi. Allora gli eventi si volgeranno a tuo favore.

venerdì 8 maggio 2015

La Sindone

Che cosa dimostra la vicenda della Sindone?
Che chi ha una fede (di cui ovviamente non può dimostrare il fondamento) è disposto far carte false pur di convincere gli altri (e se stesso) che ci sia qualcosa di vero.
L’invenzione falsificatrice – ecco il fondamento di tante religioni. A loro non interessa che una cosa sia vera: a loro interessa che ci si creda.
Perfino gli scienziati, invece di seguire il metodo scientifico, si dividono in due fazioni: chi ci crede e chi non ci crede. E, guarda caso, ognuno riesce a “dimostrare” esattamente ciò in cui crede.
Ahimè, gli esseri umani non smettono mai di essere quel che sono: omuncoli che scambiano le proprie opinioni per verità.

Diceva il Buddha: non cercate la verità – cercate di non nutrire opinioni.

giovedì 7 maggio 2015

La natura di "Dio"

La mente umana è abituata a personificare tutto. Un tempo si credeva che il sole, la luna, le stelle, i pianeti e le forze della natura fossero esseri divini. Il dio Sole, la dea Luna, Marte, Mercurio, Giove, ecc.
Ma ancora oggi questa tendenza è attiva e molti credono che l’Origine dell’universo sia un Dio. Siamo ancora lì – a Giove o a Saturno.
In realtà l’Origine non è una persona, non è un Signore, non è neppure qualcosa di esterno. Ma è il tutto che si evolve. Le sue leggi sono al di là dei nostri concetti di bene e di male, di inizio e di fine. Non sono umane.
Le nostre piccole menti non capiscono. Il Signore…

La natura del Dio degli esseri umani è ben esemplificata da un recente episodio: un gruppo di emigranti su una barchetta in mezzo al mare, e alcuni, per salvarsi, ne buttano a mare altri perché non pregavano il loro stesso Dio.

La natura del mondo

I sogni possono durare qualche secondo o qualche minuto - e più sono lunghi più lasciano un’impressione sulla mente del sognatore.
Poi esiste un sogno più lungo: quello che dura una vita. Ma, benché più lungo e più vivido, è anch’esso inconsistente, contraddittorio, confuso e insoddisfacente. Chi lascia la vita sa benissimo di non aver vissuto a pieno. In realtà, noi non sappiamo chi siamo né perché agiamo in un certo modo. E gli eventi ci appaiono spesso casuali, ambigui, sfuggenti, altalenanti e incomprensibili.
Il motivo è che si tratta pur sempre di sogni, senza capo né coda. Appaiono non si sa perché e scompaiono senza che noi possiamo farci niente. Il nostro controllo è minimo.
Viviamo comunque in uno stato di confusione e di instabilità. Anche la mente è instabile e torbida.
Per renderla più stabile, per vedere più chiaramente, dobbiamo innanzitutto renderci conto che viviamo in un sogno. È come trovarsi in un cinema, con la mente che fa da proiezionista.
L’importante è ricordarsi continuamente che viviamo in un mondo irreale e privo di fondamento.
Dobbiamo quindi sviluppare una consapevolezza sempre più lucida. Perché la natura profonda del mondo e di noi stessi è proprio questa consapevolezza, senza inizio e senza fine. Il problema è che, su una scala da uno a dieci, oggi ne sviluppiamo sì e no due o tre, con differenze anche individuali.
La concentrazione, la calma, la quiete emotiva, il rilassamento, l’attenzione non-concettuale e la presenza mentale – ecco i mezzi, alla portata di tutti, per aumentare la consapevolezza. E uscire dal sogno.