Alla fin
fine, la paura della morte nasconde una forma di attaccamento - alla vita, all’io,
a ciò che siamo temporaneamente.
Noi
consideriamo la vita la prima delle nostre proprietà, qualcosa di cui non
vorremmo mai privarci, insieme agli amanti, ai soldi, alle case, ai terreni,
ecc. Come se l’avessimo comprata, con tanto di contratto di proprietà.
Ma chi
sarebbe l’altro contraente? Avete mai firmato un contratto del genere?
Quando
perciò si avvicina il momento della morte o si affaccia il suo pensiero, veniamo
assaliti da un senso di terrore. Verremo privati degli amanti, dei soldi, delle
case, dei terreni e… della vita stessa. Per i beni terreni, sappiamo che andranno
a finire in mani altrui e, per l’io, sappiamo che potrà venir cancellato.
Ecco perché
pensiamo subito che sarebbe bello poter rinascere o poter continuare a vivere
in qualche paradiso. Qualche volta accetteremmo anche l’inferno, pur di non
perdere la nostra identità, il senso di essere un io.
Questo ci
dice che l’io è per lo più un “tenersi stretti”, un lottare contro tutti e
tutto per conservare qualcosa. Ma se la nostra identità corrisponde a un pugno
stretto, non lamentiamoci poi se ci fa male e ci fa soffrire, trasformandoci in
paranoici pieni di paure. Tutto e tutti possono portarcelo via.
Il fatto è
che, nell'intera vita, ci hanno abituato a lottare, a resistere, a conquistare,
ad accaparrare e a sopravvivere ad ogni costo. E nessuno ci insegna a lasciar
andare, a diminuire, a perdere.
Solo l’antico
saggio taoista ci ripeteva che, “sulla via del Tao, chi acquisisce perde e chi
perde acquisisce”.
Ogni tanto,
dunque, addestriamoci a lasciar andare, a lasciar perdere… anche noi stessi e
questa piccola, ringhiosa e sofferente identità. È il nostro destino.
Forse
acquisiremo davvero qualcosa di meno limitato.
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