L’artista,
il creatore, muore, ma lascia la sua opera dietro di sé. Dio, l’Origine, fa qualcosa
di più: si dissolve, anzi si scioglie
nella sua opera: l’universo.
Ogni cosa,
dunque, è un pezzo del divino: l’uomo, la gallina o il sasso. A questo punto,
non serve a niente pregare Dio, perché quel Dio dell’origine non c’è più. In
tal senso Dio è morto. Ma, poiché ogni cosa è un frammento del divino, Dio è
dappertutto: nel sasso, nella gallina o nell’uomo.
L’uomo, che
ne può avere coscienza, sa che non deve rivolgersi in alto e al di fuori di sé.
Basta che si rivolga a sé, dentro di sé: lì c’è il divino.
Gli antichi
cabalisti ebraici parlavano di tzimtzum,
per indicare la ritrazione o la contrazione di Dio, che, così facendo, lasciava
il posto al creato. Dio ha contratto la sua energia infinita per consentire l’esistenza
di un cosmo indipendente.
Risultato
Dio non c’è più, Dio è morto.
Puoi dunque
dire tanto che Dio c’è quanto che non c’è. Non c’è più nella sua forma
originale, ma c’è in modo sparso.
Il divino è
noi, il divino è noi, purché si sappia dove cercarlo. Non fuori, ma dentro, in
sé.
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