Le
identificazioni che provocano infelicità sono quelle con la nazione, la famiglia,
la religione, il mestiere, la professione, il ruolo, il genere sessuale, ecc. Fino
a un certo punto danno un po’ di sapore alla vita, ma oltre un certo limite
sono dannose.
Alla fin
fine ognuno è ciò che è indipendentemente da queste identificazioni. Se cambio
nazione, non sono più ciò che sono? Se cambio religione, se cambio ruolo, se
cambio professione, se cambio genere sessuale…. non sono più ciò che sono?
Se avessi
un altro nome o un’altra forma non sarei più ciò che sono? È chiaro che tutte
queste identificazioni aggiungono qualcosa, ma il nucleo profondo rimane quello
che è.
Ma qual è
allora la nostra più profonda identità? Questa è una domanda che ci poniamo
spesso, anche se non sappiamo rispondere.
In realtà,
in tanti momenti non pensiamo affatto alla nostra identità o alle nostre varie
identità. Quando ci svegliamo la mattina, ci vuole qualche secondo per
ricordarci chi siamo e a che punto eravamo rimasti. Oppure, quando siamo
tranquilli, sereni e rilassati, senza desideri particolari, non ci poniamo
affatto il problema della nostra identità. Sappiamo di essere e tanto ci basta.
E, quando
non ci poniamo questo problema, siamo leggeri e felici. L’identità sociale o
psicologica è un pensiero, un peso. Possiamo anche non averla e non ce ne
importa niente. Sappiamo di essere, siamo consapevoli di essere, siamo
consapevoli. E ci va bene così.
Meno
identificazioni ci sovrapponiamo, più siamo felici. Al limite, se siamo solo
consapevolezza, siamo beati e non cerchiamo altro.
Togliamoci
dunque dalla testa l’idea di essere questo o quello, spogliamoci delle
identificazioni-identità come ci togliamo dei vestiti e rimaniamo nudi. La nuda
consapevolezza basta e avanza. Non è legata né al corpo né alla mente ed è
candidata ad essere ciò che ci sopravvive dopo la morte.
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