Per quanto si possa parlare di spiritualità, noi siamo
inestricabilmente condizionati dal nostro corpo. Che può essere bello o brutto,
maschio o femmina, insignificante o speciale, alto o basso, sano o malato, ecc.,
influendo ogni momento sulla nostra psiche. Senza un corpo, l’essere non
potrebbe esprimersi.
In Occidente, Platone, riprendendo la tradizione
orfico-pitagorica, riteneva che il corpo
(soma) fosse una prigione (sema = tomba) per l’anima, e dunque un
ostacolo, un impedimento. Per l’Oriente, invece, il corpo è sì un’apparenza, ma
anche ciò che permette all’immanifesto di esprimersi.
Resta il fatto che ciò che ci identifica è proprio il corpo, oltre
naturalmente al nostro ego e alla nostra mente. Noi, però, possiamo andare
oltre e capire che non siamo né il corpo né la mente. In meditazione possiamo
distaccarci dal corpo, rimanendo fermi, bloccando per un po’il respiro e non
rispondendo ad alcuna sensazione, e possiamo distaccarci dalla mente, cercando
di arrestare ogni pensiero.
Ciò che cerchiamo è una coscienza dinamica non più personale, ma
universale.
In questa condizione non veniamo più toccati né da piaceri né da
sofferenze, preparandoci al momento in cui dovremo per forza separarci dal
corpo-mente, da quel centro psico-somatico che è la nostra identità attuale.
In tal senso potremmo dire che la meditazione è un addestramento alla
morte, a trovare l’essere senza un’identificazione così limitante. A quel punto
non saremo più né questo né quello e oltrepasseremo il senso dell’io sono o non
sono, e raggiungeremo il più alto livello di rilassamento, di pace, di riposo.
Non si tratta di esperire un particolare stato, ma di ritornare a
essere ciò che siamo sempre stati.
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