martedì 24 marzo 2020

L'insopportabile pesantezza del corpo


Per quanto si possa parlare di spiritualità, noi siamo inestricabilmente condizionati dal nostro corpo. Che può essere bello o brutto, maschio o femmina, insignificante o speciale, alto o basso, sano o malato, ecc., influendo ogni momento sulla nostra psiche. Senza un corpo, l’essere non potrebbe esprimersi.
In Occidente, Platone, riprendendo la tradizione orfico-pitagorica,  riteneva che il corpo (soma) fosse una prigione (sema = tomba) per l’anima, e dunque un ostacolo, un impedimento. Per l’Oriente, invece, il corpo è sì un’apparenza, ma anche ciò che permette all’immanifesto di esprimersi.
Resta il fatto che ciò che ci identifica è proprio il corpo, oltre naturalmente al nostro ego e alla nostra mente. Noi, però, possiamo andare oltre e capire che non siamo né il corpo né la mente. In meditazione possiamo distaccarci dal corpo, rimanendo fermi, bloccando per un po’il respiro e non rispondendo ad alcuna sensazione, e possiamo distaccarci dalla mente, cercando di arrestare ogni pensiero.
Ciò che cerchiamo è una coscienza dinamica non più personale, ma universale.
In questa condizione non veniamo più toccati né da piaceri né da sofferenze, preparandoci al momento in cui dovremo per forza separarci dal corpo-mente, da quel centro psico-somatico che è la nostra identità attuale.
In tal senso potremmo dire che la meditazione è un addestramento alla morte, a trovare l’essere senza un’identificazione così limitante. A quel punto non saremo più né questo né quello e oltrepasseremo il senso dell’io sono o non sono, e raggiungeremo il più alto livello di rilassamento, di pace, di riposo.
Non si tratta di esperire un particolare stato, ma di ritornare a essere ciò che siamo sempre stati.


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