L’esistenza, con il suo io che si agita, va considerata una specie
di film, il che significa che è qualcosa di artefatto, di sostanzialmente falso,
una fiction (cioè una finzione). E il
regista-sceneggiatore è proprio la mente cosciente, la quale, dopo essersi
inventata la trama e i personaggi, li prende per veri.
Per prima cosa, dunque, bisogna accettare questo statuto di
artificialità e di inconsistenza. Ma, poiché la mente è a sua volta un
concetto, un’apparenza, un’ombra, non può cogliere il soggetto reale, il
noumeno. Per farlo, dovrebbe togliersi di mezzo. Le risposte di un’ombra non
possono che essere altre ombre.
Di concetto in concetto, non si esce dal mondo della fantasia e
dei personaggi inventati. La mente non può trovare la realtà. Solo quando cessa
il suo potere inventivo, proiettivo e falsificante, si entra in una dimensione
nuova, dove non c’è più nessuno che si risvegli o si illumini, dove non c’è più
una coscienza condizionata, né un pensare, né un concettualizzare, né un
oggettivare.
Nella tragicommedia dell’esistenza, i personaggi non possono
trovare l’autore, perché lo falsificherebbero subito.
L’autore può apparire solo quando gli attori smettono di stare in
scena, di recitare e di cercare. Solo quando la mente si fa silenziosa e vuota,
si forma lo spazio per fare emergere il reale. Sparisce il personaggio e
compare non tanto il regista, ma ciò che sta prima - il soggetto originale nel suo duplice significato.
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