martedì 31 marzo 2020

Il capovolgimento della comprensione

È la sensibilità che ci manca – sensibilità che è la vera comprensione. Così rimaniamo alla superficie, nascondiamo, reprimiamo, deviamo, abbiamo paura di affrontare la realtà, ci accontentiamo di un assaggio, ma poi celiamo a noi stessi.
La porta è bloccata dall’angoscia, dal terrore di scoprire che viviamo di finzioni, che ci accontentiamo di poco.
L’angoscia è la guardia armata che ci impedisce l’ingresso. Qualcosa ci respinge, qualcosa ci ottunde per farci accettare l’insopportabile.
Qual è il motivo che ci fa scappare?
Scoprire che tutto questo non vale la pena, che nascere e morire non vale la pena.
Pensate che noi abbiamo paura di perdere la nostra piccola coscienza, il nostro incerto io – questo è ciò che più ci terrorizza.
E non capiamo che è esattamente il contrario. È la strozzatura delle coscienza che ci ostacola. Mentre la sua perdita è la liberazione.
Che capovolgimento!

Se togliamo i lustrini e le paillettes alla vita (il mangiare, il copulare, le arti, gli spettacoli, i vestiti, le bellezze della natura, ecc.), ecco comparire l’altro volto: quello orribile della malattia, della follia, della guerra, del contrasto, della violenza, della vecchiaia, dell’egoismo, della morte, ecc.
Ma non possiamo dirlo. Dobbiamo nascondere, dobbiamo illudere, dobbiamo inventare favole per bambini, dobbiamo censurare.
Come diceva Leopardi,


Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?

lunedì 30 marzo 2020

L'impossibile ricerca della verità


Se ci troviamo in un incubo – e lo è sempre anche se non sempre ce ne accorgiamo -, se viviamo in una specie di sogno, è difficile che il sognatore possa trovare la verità. Lo stato dell’ “io sono” che per noi sembra essere il massimo della realtà, è in effetti qualcosa di transitorio, basato su impressioni fallaci, concetti e supposizioni – una sorta di malattia o di febbre e comunque una diminutio. Solo quando il sogno svanirà, ritroveremo la nostra vera identità, quella che non è mai nata né morta, dove non avremo più bisogno di parole.
Le nostre supposizioni vanno invertite. Noi non ci troviamo nella realtà, ma nel posticcio, nell’apparenza, e quindi non possiamo né percepire né pensare la verità.
La ricerca della verità è impossibile con la mente attuale: questo è da capire. Ci vuole una non-mente.
Dunque, l’unica cosa da fare, per ora, è concentrarsi sul senso dell’ “io sono”, per poi trascenderlo verso quello stato in cui esso non ha più senso e la coscienza si frammenta e si polverizza come una lastra di ghiaccio o di vetro.

domenica 29 marzo 2020

Il nostro incubo


Molti credono in un’altra vita, molti credono nella reincarnazione, molti credono nel nulla. Ma non sanno spiegare perché siamo capitati nell’incubo di questa esistenza. Ed ecco le solite spiegazioni: perché ti sei comportato male, perché hai peccato, perché c’è il peccato originale, ecc.
In realtà il peccato originale è essersi imprigionati in questo corpo e in questa mente, che devono entrambi venire distrutti. Il corpo e la mente continuano a ripetere le loro funzioni: il corpo respira, mangia, digerisce, espelle, invecchia, si ammala e muore. e la mente elabora idee e concetti. Ma entrambi periranno.
Così l’individuo è come imprigionato in un brutto sogno, è come in uno stato di coma da cui non può più uscire. È angosciato e angosciante.
Se anche ci fossero un’altra vita nell’aldilà o altrove, non sarebbe che un altro sogno. E ogni volta il soggetto sarebbe scontento e vorrebbe cambiare. Ma il problema è che ci identifichiamo con qualcosa di insoddisfacente: questo corpo, questa mente, questa vita, questo io.
Abbiamo svenduto il tutto per una parte, abbiamo svenduto il reale per l’irreale. Ed eccoci qua a sognare sempre qualcosa di meglio – qualcosa che non arriva mai.


La persistenza della religione


Non so se avete notato che, in un primo momento, con la comparsa del virus era scomparsa anche la religione. Chiuse le messe e le chiese, chiuse le cerimonie pubbliche, chiusi i conventi, chiuse le processioni, i preti si erano dichiarati impotenti e si erano nascosti: la parola era passata alla scienza, che era diventata la verità. Soprattutto la gente si era convinta che le solite parole di conforto erano inutili.
Dov’è Dio in queste circostanze, dov’è la sua presunta potenza, dov’è il suo amore per gli uomini? Ma il credente non si dà mai per vinto. Se c’è una sciagura, la colpa è tutta degli uomini, che vengono giustamente puntiti per i loro peccati. La mentalità è sempre la stessa, da millenni.
Di questo vuoto si sono accorti i preti e i clericali, che si sono impegnati a riconquistare lo spazio pubblico. Ed ecco la ricomparsa del Papa a ripetere come un disco rotto e assurdo le consuete formule senza senso. Anche le televisioni e il nostro potere mediatico sono subito corse ai ripari. Ed ecco i rosari e le messe trasmesse vie etere.
Il Papa non ha perso l’occasione. E si è messo a recitare nelle piazze e nelle cappelle vuote. In fondo i mass media non hanno bisogno di un pubblico reale. E in fondo il mestiere di un Papa è proprio questo: fare l’attore, recitare una parte nell’incredibile commedia umana.
Quando fra qualche mese sarà scomparsa l’epidemia, i credenti diranno che sono intervenute la Divina Provvidenza o la Madonna. Vi ricordate ciò che si dice ne I promessi sposi?
Gli uomini sono fatti così. Anche di fronte alla prova dell’inesistenza delle loro Divinità, non possono smettere di illudersi e di illudere.
La religione non muore mai, perché è uno dei fondamenti di Maya, l’illusione, la dea che domina questo mondo.

giovedì 26 marzo 2020

Il nulla creativo


Chi siamo noi, allora? Sì, certo, abbiamo tutti una vaga idea, perché siamo coscienti e abbiamo la sensazione di essere vivi. Perciò, anche se non possiamo definirlo chiaramente a parole, sappiamo che siamo… quelli lì. Io sono quello lì e più o meno lo so.
Il problema è che so anche un’altra cosa: che quello lì è una robetta abbastanza insignificante, che durerà al massimo cent’anni e poi sparirà per sempre. E allora sorge un’altra domanda: sarà solo quella la mia vera identità o ce ne sarà un’altra, magari più profonda e oscura, un sé che in questo momento mi sfugge?
La verità è che nessuno vorrebbe sparire per sempre. Vorremmo tutti essere eterni. Vorremmo tutti avere almeno un’anima che ci sopravvivesse.
       Ma ci rendiamo tutti conto che il corpo finirà sgretolato e con esso anche la coscienza individuale. E, una volta che il corpo e la mente saranno spariti, in che cosa possiamo sperare?
La soluzione finora è quella di un’anima immortale. Ma si tratta di parole, di teorie, di fedi, di speranze fondate su… niente. Per ora, in attesa di qualcuno che torni a riferirci dell’aldilà, resta la quasi certezza che finiremo nel nulla.
Questo nulla, però, è qualcosa su cui si può ragionare. Innanzitutto non è un nulla assoluto, ossia la mancanza di ogni cosa, perché è ciò da cui proveniamo. Qualunque cosa ci fosse prima, è qualcosa di fecondo, qualcosa da cui sono nate la vita e la coscienza.
Gli scienziati parlano piuttosto di vuoto, ma di un vuoto che ha dato origine (non in maniera personale, ma in maniera meccanica) all’universo. E scusate se è poco. Da lì è venuto fuori tutto, una specie di fucina o di vagina cosmica.
Dunque, se da lì proveniamo e poi lì finiamo, non è la fine di ogni cosa. Al contrario, sembra essere piuttosto un rimescolamento delle carte. Non male, dopotutto.
Non ti spaventare, dunque. Abbi fiducia nelle potenzialità della realtà. Come diceva Eraclito, “per gli uomini che sono morti, sono pronte cose che essi non sperano né immaginano”.


martedì 24 marzo 2020

L'insopportabile pesantezza del corpo


Per quanto si possa parlare di spiritualità, noi siamo inestricabilmente condizionati dal nostro corpo. Che può essere bello o brutto, maschio o femmina, insignificante o speciale, alto o basso, sano o malato, ecc., influendo ogni momento sulla nostra psiche. Senza un corpo, l’essere non potrebbe esprimersi.
In Occidente, Platone, riprendendo la tradizione orfico-pitagorica,  riteneva che il corpo (soma) fosse una prigione (sema = tomba) per l’anima, e dunque un ostacolo, un impedimento. Per l’Oriente, invece, il corpo è sì un’apparenza, ma anche ciò che permette all’immanifesto di esprimersi.
Resta il fatto che ciò che ci identifica è proprio il corpo, oltre naturalmente al nostro ego e alla nostra mente. Noi, però, possiamo andare oltre e capire che non siamo né il corpo né la mente. In meditazione possiamo distaccarci dal corpo, rimanendo fermi, bloccando per un po’il respiro e non rispondendo ad alcuna sensazione, e possiamo distaccarci dalla mente, cercando di arrestare ogni pensiero.
Ciò che cerchiamo è una coscienza dinamica non più personale, ma universale.
In questa condizione non veniamo più toccati né da piaceri né da sofferenze, preparandoci al momento in cui dovremo per forza separarci dal corpo-mente, da quel centro psico-somatico che è la nostra identità attuale.
In tal senso potremmo dire che la meditazione è un addestramento alla morte, a trovare l’essere senza un’identificazione così limitante. A quel punto non saremo più né questo né quello e oltrepasseremo il senso dell’io sono o non sono, e raggiungeremo il più alto livello di rilassamento, di pace, di riposo.
Non si tratta di esperire un particolare stato, ma di ritornare a essere ciò che siamo sempre stati.


lunedì 23 marzo 2020

Riassorbirsi in Sé


L’apparizione del mondo e delle sue innumerevoli manifestazioni è come lo svolgersi di una pellicola cinematografica in cui ogni fotogramma sia un ente ed un evento. Il rullo si srotola e fa apparire come per magia tutto ciò che vediamo. Così il mondo è una specie di sala cinematografica sul cui schermo passano le immagini dei vari avvenimenti, fra cui la nostra stessa persona con la sua coscienza individuale.
Ora, una volta che si sia consolidato questo nostro io e la sua esistenza, c’è un soggetto che può compiere il cammino inverso, risalendo alle origini. Prima di tutto, la sua attenzione può essere rivolta dall’esterno all’interno; e poi egli può riavvolgere la pellicola.
Questa è appunto la meditazione in cui, fermate le sensazioni centripete e i pensieri centrifughi, l’essere individuale si riassorbe in Sé.
Riassorbirsi in Sé non significa cercare di ritrovare la propria identità psicologica e sociale, ma risalire oltre, oltrepassando la propria persona e raggiungendo la fonte della manifestazione, ossia quel senso di sé, il senso dell’io sono, la coscienza, che rappresenta l’inizio della nostra conoscenza, interna ed esterna.
Ci sono stati periodi nella nostra vita in cui questo senso dell’essere non c’era ancora o era confuso, ma a poco a poco siamo riusciti a chiarirci chi siamo. Questa nostra conoscenza, però, è del tutto condizionata e non è quella che cerchiamo in meditazione. In meditazione non cerchiamo di de-finire in concetti ciò che siamo, ma cerchiamo di risalire alle origine stesse della coscienza, perché la nostra prima origine è la Consapevolezza universale, ciò da cui si formano ed escono tutte le pellicole e tutti gli schermi.
Per far questo non possiamo accumulare altre nozioni, ma liberarci da tutte quelle che già abbiamo.


domenica 22 marzo 2020

Il Testimone ultimo


Un attore può recitare magnificamente la parte di Amleto. E forse, mentre recita, si convince di esserlo. Ma egli sa benissimo che non è Amleto.
Analogamente, tu credi di essere il Tal dei Tali. Ma, in certi momenti, ti domandi chi tu sia veramente, quale sia la tua vera identità.
La meditazione serve a rispondere a questa domanda. Se ti concentri un po’, ti rendi conto di essere uno che recita una parte: sei proprio un attore oppure uno che sogna o immagina di essere quel Tale.
Ora lascia perdere i vari personaggi che impersoni e concentrati sul tuo semplice senso di essere – non di essere questo o quello, ma di essere e basta.
Assorbiti in te stesso, su questa tua sensazione di essere. Lascia perdere ogni altro pensiero. Isola questa sensazione di essere che, evidentemente, viene prima dell’essere questo o quello. E qui è il punto delicato. Essendo comunque un essere dotato di un corpo e di una mente, non è facile liberartene di colpo. In effetti non puoi farlo.
Ciò che puoi fare è stare lì, accanto al senso di essere, aspettando che sia lui a rivelarsi, a presentarsi, a liberarsi. Devi essere costante e paziente.
Non sei tanto tu che realizzi il Sé quanto il Sé che si mostra. A quel punto ti liberi della visione dualistica e individualistica e della tua identificazione con il corpo-mente. E comprendi chi sei veramente – non le varie identità che hai rivestito nel corso della vita, ma il testimone eterno di queste identità.
Le identità, le identificazioni, cambieranno e alla fine scompariranno. Ma rimarrà il loro Testimone, ciò sul cui sfondo esse appaiono.

sabato 21 marzo 2020

Sollevare il velo di Maya


Poiché non tutto il male viene per nuocere, dalla attuale epidemia possiamo trarre alcune utili lezioni. La prima è che dovrebbe essere definitivamente abbandonata la fede in una provvidenza divina che può anche essere sollecitata dai credenti. Provate a pregare Dio di far finire l’epidemia e vediamo se vi risponde.
Ma non è così, non è mai stato così. Nessun Dio interviene, nessuna Madonna ci viene in aiuto per darci un vaccino. Il mondo ubbidisce a leggi implacabili, determinate meccanicamente, che non si curano degli individui, che non distinguono tra buoni e cattivi, tra credenti e non credenti. I virus non sanno niente di Dio, i terremoti non sanno niente di Dio, le malattie non sanno niente di Dio, la vecchiaia non sa niente di Dio, la natura non sa niente di Dio. In questa bellissima primavera, mentre sbocciano i fiori, la falce della morte si abbatte su tanti esseri umani, indifferentemente. Non saranno le preghiere a salvarci e nemmeno le processioni, i santuari e le messe. Anzi, dobbiamo evitare ogni assembramento. Il mondo non sa niente di religioni, che evidentemente sono solo invenzioni umane.
Sento Papa Francesco che ci consente di pregare individualmente Dio. Bontà sua. Senza il suo permesso, senza la mediazione di una casta sacerdotale, non è possibile pregare o rivolgerci a Dio? La meditazione ride e commisera.
Del resto non servirebbe a niente, perché quel Dio è al 99 per cento una nostra creazione.
Certo, un giorno l’epidemia finirà. Ma non perché sarà intervenuto una Divinità esteriore, ma perché avrà fatto il suo implacabile corso naturale.
E, tuttavia, se il mondo è in gran parte una nostra creazione, una proiezione della nostra coscienza, sarà proprio la nostra conoscenza a poterci salvare – la conoscenza scientifica e la conoscenza meditazionale. Quest’ultima ha lo scopo di comprendere e di esperire nuove modalità di coscienza, in grado di cambiare certi parametri che ci sono attualmente sfavorevoli.


venerdì 20 marzo 2020

Il senso dell'individualità


È evidente che noi siamo attaccatissimi al nostro corpo e, più in generale, alla nostra individualità. Non vorremmo mai perdere il senso della nostra individualità. Siamo convinti che, se lo perdessimo, per noi sarebbe finita.
Eppure ci sono momenti nella vita in cui ci dimentichiamo di essere il Tal dei Tali e agiamo comunque. Anzi, agiamo meglio e ci sentiamo più leggeri. Questo è il punto. Si può vivere anche senza essere ossessionati dall’ego, dalla nostra identità corporale, psicologica e sociale.
Se ci pensiamo bene, l’identità è una specie di corazza che ci schiaccia, ci opprime e ci impedisce movimenti liberi. Quando siamo felici, non pensiamo affatto al nostro ego, ce ne siamo sbarazzati come per incanto.
Se ci concentriamo sul semplice senso di essere (non di essere questo o quello) o sul respiro, usciamo dai pensieri ossessivi della mente, dai tanti problemi, dalle preoccupazioni e dalle sofferenze legate alla sopravvivenza e ai bisogni dell’ego. Solo allora ci sentiamo liberi e felici.
L’ego è sinonimo di costrizione e di limitazione, e non è affatto indispensabile.
Nello stato più alto non c’è senso dell’individualità, che è anche senso di separazione e di ansia.
Se invece sei così attaccato al tuo io, vuol dire che ti identifichi troppo con il corpo e con la mente.

giovedì 19 marzo 2020

Alla ricerca dell'eterno


Tutto ciò che è comparso è destinato a scomparire, tutto ciò che è nato è destinato a morire – su questo non ci piove. Dunque, se cerchiamo l’eterno, dev’essere qualcosa che non è né comparso né nato, qualcosa che non segua le vicissitudine del corpo e della mente.
Ma non può trovarsi nemmeno nella coscienza o nel senso di essere, che alla fine spariranno insieme al corpo e alla mente.
Il senso di essere è per noi fondamentale. Si può dire che la nostra identità terrena sia fondata su tale sensazione che un po’ alla volta si consolida nel corpo-mente. Se io sento di essere, concludo che sono, non per altri motivi.
Ma non è così semplice. Il mondo in cui viviamo ci dà anche un’identità culturale e sociale. Non solo sono, ma sono una determinata persona appartenente a una famiglia, a un paese, a una religione, ecc. Le due identità si mischiano. Tu sei quello lì, ci dicono. E anche noi ne siamo convinti.
Così ci sentiamo cristiani, musulmani, ebrei, indù, buddhista, ecc. E poi ci sentiamo italiani, inglesi, americani, cinesi, ecc. E poi ci sentiamo appartenere a un determinato ceto sociale, a una determinato professione, ecc.
Peccato che tutte queste identità siano illusorie e destinate a sparire, insieme col corpo-mente. Guardiamo allora indietro, guardiamo alla fonte. Dobbiamo percepire la nostra vera natura, non nata e indistruttibile. E dobbiamo passare per la sensazione dell’io sono: lì c’è la soluzione del problema, la via, il guru. Chi è il testimone della coscienza? È una consapevolezza ancora più profonda, sul cui sfondo appaiono le varie identità.
Questo sfondo non nasce con la coscienza né con l’io sono, ma è ciò che li permette entrambi. Non nato, non morto. Prima anche della coscienza identitaria. Eterno.

mercoledì 18 marzo 2020

Liberarsi dall'illusione


In questi giorni di epidemia, molti di noi avranno avuto l’impressione di vivere in un brutto film o in un incubo. Naturalmente è proprio così. Siamo tutti bloccati nelle nostre case e un sacco di attività sono impedite o annullate. Quindi ci rendiamo tutti conto di quale orrore possa essere l’esistenza. La gente muore come mosche e non sono possibili nemmeno i funerali. Gli ospedali sono intasati, siamo costretti a tenere le distanze da tutti, anche da parenti e amici, e non sappiamo se saremo colpiti anche noi dalla malattia. Non si può immaginare un incubo peggiore.
Quando le cose vanno così male, diventiamo necessariamente consapevoli che la vita sia, più che un dono, una condanna. I soliti ottimisti lanciano il motto “tutto andrà bene”. Ma la verità non è questa. La verità è che l’esistenza è sempre una tragedia - solo che in certi momenti, ingannati da tanti diversivi, ce ne dimentichiamo.
Che cosa “andrà tutto bene”? Ad essere realisti, tutto va sempre male. Che dire, infatti, di una vicenda che finisce comunque con la vecchiaia, la malattia e la morte?
Si tratta proprio di un brutto film, di un brutto sogno, che ha un’unica nota positiva: entra breve tempo finirà.
Purtroppo le lezioni della vita servono a poco, e molti, quando tutto sarà finito, torneranno a credere negli dei, nella provvidenza divina e nelle “magnifiche forze e progressive” della civiltà umana.
Certo, in questa primavera, le ginestre e i fiori continuano a crescere e ad abbagliarci con i loro colori. Ma tutto è apparenza, la vita e la morte. E noi continueremo a illuderci che possa finire bene.
Decidiamoci, dunque, a uscire da questo terribile incantesimo, a riconoscere il male come il male, la sofferenza come la sofferenza, e a non farci mai più imprigionare dalle illusioni della felicità, dell’identità, della coscienza, ricongiungendoci con la Pura consapevolezza, atemporale e immanifesta che non ha bisogno né di corpi, né di mondi, né di esistenza, né di coscienza.


martedì 17 marzo 2020

Oltre il senso dell'essere


Noi consideriamo l’essere lo stato più elevato e auspicabile e il non essere la negazione di tutto ciò e dunque il peggiore dei mali. Secondo noi, poter percepire e dire “io sono” è la cosa migliore. Se uno perde l’essere o precipita nel non essere per noi è finito.
       Ma non è così. C’è uno stato ancora più elevato – quello precedente la comparsa dell’essere e del suo contrario, e quello seguente. Perché una cosa è certa: ciò che compare e scompare, ciò che va e viene, ciò che ha un contrario, si situa in un alveo che trascende entrambi.
Al di sopra dell’essere e del non essere, al di là delle parole e dei concetti, c’è il vero eterno. Semplice e chiaro, senza bisogno di io e di coscienza.
Fermiamoci su questa intuizione. Proviamo però a non farne un concetto, un’idea. Ma riassorbiamoci nell’esperienza... senza che ci sia colui che fa l'esperienza.
Che cosa c’è prima e dopo l’essere e il non essere? Prima e dopo la coscienza? Che cosa non nasce né muore, mentre tutto il resto nasce e muore?

domenica 15 marzo 2020

Invocazione ed evocazione


Quando si parla di invocare, ci si riferisce a qualcuno o a qualcosa di esteriore, e, quando si parla di evocare, ci si riferisce a qualcuno o a qualcosa di interiore. Naturalmente una cosa non esclude l’altra, e in alcuni casi coincide. L’uomo che crede di invocare una divinità, mobilita inconsapevolmente la propria forza interiore; e l’uomo che evoca una propria forza, muove inconsapevolmente anche altri poteri.

       Il fatto è che la distinzione esterno-interno è una delle tante di una mente duale che deve contrapporre per conoscere. Ma, nella realtà, la contrapposizione non esiste o è molto più sfumata. Che cos’è infatti l’interiorità dell’uomo se non qualcosa che si contrappone all’esteriorità?
Questo per dire che chi fa meditazione si pone sempre al confine tra evocazione e invocazione, tra interiorità ed esteriorità, tra soggetto ed oggetto, e si sforza di andare oltre cercando quell’unità che è andata perduta con la nascita della coscienza umana.
Al soggetto appartiene di più la decisione di dare inizio alla meditazione, ma poi il processo va avanti per così dire autonomamente - soggettivo ed oggettivo nello stesso tempo, al di là di entrambi.

Trascendenza e Dio


Ridurre la trascendenza al concetto di Dio è quanto di più semplicistico ci possa essere, addirittura un atto primitivo, un atto da scimmia antropomorfa che ricerca il capo-branco.
       Il problema è che la nostra mente ha già operato una riduzione di senso quando ha pensato Dio. Si è introdotta una specie di dittatura della ragione, che ha voluto “misurare” l'Origine di tutto e darle un'interpretazione umana. Ci si è dimenticati che – come diceva il Tao Te Ching - “il cielo e la terra non sono umani”.
Così è nato il Dio delle religioni monoteistiche, sempre più lontano dalla trascendenza. Un fantoccio antropomorfo cui chiedere grazie.
       La trascendenza non può avere un senso definito, chiuso, delimitato e duale, addirittura il creatore del bene e del male. Non è un padre, non è una madre, non è un dittatore, che si è fissato una volta per tutte in modo univoco. Se fosse così, che creatore sarebbe? Sarebbe un piccolissimo Dio.
       La stessa operazione di riduzione e di imposizione di un senso definito, univoco e nello stesso tempo duale, è stata fatta sull'io, che ha perso così la sua multi-valenza per fissarsi in un ego roccioso, che è una vera e propria prigione nella quale ci siamo chiusi.

Il mondo del dualismo


Finché resteremo nel mondo della dualità – piacere contro dolore, bene contro male, successo contro fallimento, amore contro odio, ecc. – non avremo alcun accesso a una felicità o pace durature. Oscilleremo tra un estremo e l’altro, ponendoci domande che non hanno risposta.
Se non si affaccia in noi l’intuizione che siamo esseri unitari, al di fuori del tempo e dello spazio, al di là dell’io isolato che crediamo di essere, al di là della persona che nasce e muore, potremo solo desiderare qualche paradiso che sarà però sempre contrapposto a qualche inferno, e quindi resteremo imprigionati nel gioco del due, il gioco illusorio di Maya.
Ma gli stessi desideri sono piacevoli solo finché restano irrealizzati. La realtà non può che essere un’altra cosa. Oltre gli opposti, oltre lo stesso concetto di io, oltre il piacere e il dolore.

sabato 14 marzo 2020

Il sogno cosmico


Il mondo esiste perché appare alla coscienza degli esseri senzienti. Infatti, senza la coscienza non ci sarebbe niente. Tutti sappiamo che, quando la coscienza di un uomo si interrompe – per esempio nel sonno profondo, durante un’anestesia o alla morte – per lui il mondo svanisce.
Le strutture fondamentali dell’Universo – come lo spazio-tempo e il dualismo – non sono che strutture della mente.
Se ci crediamo soggetti circondati da altri soggetti e da oggetti, è perché siamo condizionati a pensarlo. Ma si tratta di semplici immagini della mente, di apparizioni, di sogni.
Lo stesso io è un concetto mentale e, quindi, è nello stesso tempo un sognato e un sognatore. Quando perciò ci mettiamo a cercare il cercatore, non possiamo trovarlo. Non c’è che un’idea, un’immagine.
Ma questo non significa che non siamo niente. Siamo un assoluto che non ha bisogno nemmeno dell’esistenza e della coscienza. Mai nato, mai morto. Al di là del mondo fenomenico.

venerdì 13 marzo 2020

Il ritorno alla base


Se arrivi a vedere il mondo in modo non tanto dissimile da uno stato di sogno, devi convenire che anche il tuo io cosciente ha la stessa natura evanescente.
In effetti, quando non c’è coscienza – come nel sonno profondo, in un’anestesia o nella morte – dove vanno a finire il tuo io e il tuo mondo con tutta la sua dualità? Sparita la coscienza, sparisce tutto..
Ma è tutto qui? Un io sognato che sogna altri sogni? Una semplice apparizione in una coscienza che deve sparire? Un fantasma che deve svanire non appena spunta l’alba? Sarebbe deludente. La vita sarebbe un epifenomeno senza importanza.
Se però ragioni bene, e se vai al di là dei concetti, ti rendi conto che la coscienza è dualismo soggetto-oggetto, piacere-dolore, bene- male, nascita-morte, ecc. E, quando sparisce il dualismo con la sua frammentazione, ritorna il tutto che, per qualche motivo, si era autolimitato per dare origine al mondo fenomenico. Dall’essere una parte ritorni ad essere il tutto.
Ecco perché la morte dovrebbe essere vista come una liberazione.
Ma il punto di ritorno non coincide con il punto di partenza. C’è stato un valore aggiunto – l’esistenza.
L’attore che ha recitato la sua parte, quando ritorna dietro le quinte, non è più l’attore che era prima di entrare. È diverso, più ricco. Il viaggiatore che ritorna dopo un lungo viaggio, guarda il paese natale con occhi diversi.

giovedì 12 marzo 2020

Pensieri senza pensatore


Per risvegliarsi occorre liberarsi di gran parte dei nostri pensieri, delle nostre concettualizzazioni e delle nostre oggettivazioni, e ritrovare i processi basilari e spontanei della mente.
Ma cercare la spontaneità, la naturalezza o l’abbandono non è facile, perché la nostra mente è ormai piena di pregiudizi, di preconcetti, di valori e di schemi più o meno artefatti. Bisogna saper distinguere i pensieri che si originano spontaneamente: il primo è certamente “io sono”, “io esisto”. È qualcosa che non ha bisogno né di argomentazioni né di dimostrazioni. È immediato, istantaneo, spontaneo e non concettuale, e viene dato per scontato. È forse il primo pensiero, cui seguono tutti gli altri.
“Io sono perché sono cosciente.” Così tutto ciò che minaccia il mio essere, il mio esistere, produce sensazioni, reazioni e pensieri altrettanto immediati. Se in una foresta mi trovo di fronte a un leone, non ho bisogno di pensieri o di ragionamenti per giustificare ciò che provo.
Ma tutte le riflessioni, i ricordi, i rimpianti o le anticipazioni, tutti i sogni a occhi aperti, tutto il nostro rimuginare, tutto ciò esce dalla spontaneità. Si tratta di elaborazioni di pensieri mediati, indiretti e basati sul dualismo dei contrari: bene-male, buono-cattivo, bello-brutto, soggetto-oggetto, nascita-morte, amore-odio, prima-dopo, alto-basso, utile-inutile e così via.
I pensieri più ispiranti si producono quando la mente si è liberata di tanti valori, giudizi ed elucubrazioni ed emergono naturalmente come se non ci fosse più un soggetto che li controlla e dirige. Ripensandoci dopo, ci accorgiamo che ci sono i pensieri, ma non c’è chi li pensi. E scopriamo che anche quello dell’ “io” è un concetto.
Sono questi i casi in cui si origina un’azione efficace e senza macchia. Facciamo quel che dobbiamo fare, compiamo quello che è necessario.

mercoledì 11 marzo 2020

L'abbandono


Cogliere questa vuota realtà ultima (e prima) è tuttavia difficile. Stai cercando di ritornare là da dove vieni. Ma là da dove vieni e dove ritornerai non c’è il senso di essere presenti, la normale coscienza limitata che dice “io sono” in un determinato spazio-tempo e usa un linguaggio duale che deve dividere e contrapporre.
Nessuna verità rimane tale nel momento in cui viene espressa con un linguaggio del genere.
Inoltre devi lasciar andare anche la tua volizione, perché ciò che sei veramente non è il tuo piccolo io che pretende di essere e di fare. Anzi, più sforzi compi, più ti allontani dalla meta.
È un paradosso. Tu sei già nel posto in cui vorresti andare. E più ti agiti, più te ne allontani. In realtà ci dovrebbe essere la più totale assenza dell’agente. Ciò che stai cercando di scoprire è ciò che sei. Ma, se lo sei, come fai  a scoprirlo?
Quando ci svegliamo dal sonno profondo, lo facciamo spontaneamente e non per uno sforzo di volontà.
In Occidente, Meister Eckhart aveva già fatto notare che “colui che prega desidera ottenere qualcosa, o che Dio gli tolga qualcosa. Ma un cuore distaccato non desidera niente e non ha niente da cui desideri essere liberato.”
In effetti, lo stato di schiavitù dipende dal fatto che noi non abbiamo ancora compreso il falso come falso, l’illusorio come illusorio. E, poiché non lo abbiamo compreso e cerchiamo la liberazione, siamo ancora prigionieri di una mente erronea.
La nostra mente non ha ancora colto che siamo già liberi, se ci liberiamo dalla prigione dei preconcetti e da una coscienza profondamente condizionata da fedi e convinzioni destituite di ogni fondamento.
Per liberarci dobbiamo svuotare la mente e la coscienza, e abbandonarci alla spontaneità primordiale che è l'unica a condurre la nostra barca.

martedì 10 marzo 2020

Chi ci salverà


Per combattere l’epidemia (che in un modo o nell’altro, su un piano o sull’altro esiste sempre) dobbiamo evitare aggregazioni, assembramenti, socialità, riunioni, baci, abbracci, strette di mano, messe, processioni, partite di calcio e manifestazioni sportive. Dobbiamo evitare spostamenti, viaggi, trasferimenti.
C’è stato troppo pieno, troppi dati, troppe informazioni, troppo stress, troppi idoli, troppe intenzioni, troppe volizioni, troppe fervore, troppi sentimenti, troppe passioni, troppi pensieri, troppa vicinanza.
Dobbiamo aumentare le distanze tra noi e gli altri, dobbiamo creare più spazio possibile.
Sì, nella evidente latitanza di dei, Iddii, Madonne e santi miracolosi, è il Vuoto che ci salverà, quintessenza di tutto.
Il Vuoto da cui usciamo, il Vuoto che non manca mai nelle nostre esistenze (ma che può essere aumentato e coltivato) e il Vuoto che ci attende.
Nel Vuoto si placa ogni tensione, ogni sofferenza, ogni colpa, ogni malattia.
Isolamento e Vuoto – ecco chi ci salverà, come sempre.
Che lezione!
Quando tutto crolla, una sola cosa resta: il Vuoto.

Vivere nell'incertezza


Da un parte le religioni e le filosofie ipotizzano questo o quello stato ultimo post mortem: la fine della coscienza individuale e basta, la fine della coscienza individuale ma la dissoluzione in un Io impersonale e infine l’esistenza di un Deus ex machina che prima ci crea dal nulla e poi, dopo la morte, ci viene a ripescare come anime individuali.
Il problema è che nessuno può portare prove. Così i più non credono a nulla e si limitano ad aspettare per verificare. Vedremo, sapremo o… non sapremo.
Dall’altra parte ci sono i problemi pressanti delle nostre esistenze individuali: non solo la nostra morte ma anche quella delle persone che ci sono care. Cosa pensare? Siamo immortali o finiamo nel nulla?
Di fronte alla morte e alla sofferenza siamo tutti impotenti e terrorizzati. Non possiamo fare qualcosa e dobbiamo subire. Questo è l’aspetto più angosciante: non avere certezze.
Non ci resta che percepire la verità nel punto più profondo di noi stessi, non certo nei libri sacri scritti da chissà chi. Rimarranno incertezze, certo. Ma dobbiamo conviverci.


lunedì 9 marzo 2020

Il fallimento del (buon) vecchio Dio


Per chi crede ancora in un Dio, la situazione si fa davvero paradossale. Questo Dio dovrebbe essere colui che ha creato il mondo e che in un certo senso lo protegge – del che non v’è la minima traccia. Ma in più dovrebbe essere colui che, una volta morti, ci risuscita e ci da la vita eterna. Insomma prima gonfia il mondo come un palloncino e poi gonfia anche noi sia per nascere sia una volta morti.
Ora, a parte il fatto che, come ci dice la teologia cristiana, la resurrezione dei morti avverrà solo alla fine dei tempi (e quindi per ora non si sa dove finiscano), la creazione avrebbe bisogno continuamente di un’assistenza dall’esterno. Il meccanismo è davvero macchinoso e poco credibile. Niente starebbe in piedi da solo e tutto avrebbe bisogno di un deus ex machina provvidenziale. E tutto questo avverrebbe per amore.
Peccato che le leggi create da questo Dio siano di una ferocia incredibile: in pratica ogni essere è costretto per vivere a mangiarne altri. Una specie di Dio macellaio che ama tanto la strage.
Per come è conciato il mondo è più probabile che si sia formato da solo, in maniera casuale e abborracciata. In questo immenso universo non si vedono interventi provvidenziali, ma continue sofferenze e sopraffazioni. Il forte mangia il debole e basta un virus per ammazzare migliaia di uomini. Dove sarebbe l’intervento benevolo di questo Dio? Le cose sono sempre andate così, e in passato, quando c’erano le epidemie di peste o di vaiolo, anche peggio.
Ciononostante, molti continuano a credere in un Dio del genere. Forse perché non hanno grandi alternative. Meglio credere in un Dio buono, pensano, che sentirsi soli.
Ma talvolta è meglio essere soli che male accompagnati o del tutto illusi. È più semplice e logico pensare che l’universo, almeno nella sua parte manifesta, si sia creato per un processo interno, cui corrisponde quella che poi si presenta come coscienza umana.
Noi usciamo dalla zona immanifesta e si produce una coscienza che ci fa vedere le cose in un certo modo. Ma questa coscienza è in gran parte infelice ed è destinata a riconfluire nella sua stessa Origine, dove non c’è nessuna consapevolezza individuale a dividere e a disturbare la pace assoluta.


domenica 8 marzo 2020

Il virus uomo


Ci sono dei casi nella vita in cui è meglio non fare che fare. Per esempio, in questo periodo di epidemia e di contagio, dobbiamo sovvertire le nostre strategie abituali. Abituati a credere che l’unione faccia la forza, siamo costretti a evitare gli assembramenti e ad isolarci. Abituati ad agire per risolvere i problemi, siamo costretti a muoverci il meno possibile. Abituati a considerare il prossimo una risorsa, siamo costretti a considerarlo una minaccia.
Abituati a credere nella provvidenza o bonarietà divina, siamo costretti a concludere che nessun Dio può proteggerci. Abituati a pregare per sperare di avere, siamo costretti a disertare le riunioni religiose, le messe, le cerimonie e perfino le processioni con cui una volta s’invocava l’intervento dei santi e degli dei.
Abbiamo edificato un mondo in cui non c’era spazio per l’immobilità, la riflessione e la solitudine. E ora siamo costretti a rivedere i nostri dogmi. È una dura lezione.
Meno ci incontriamo, meglio è. Meno ci tocchiamo, meglio è. Meno ci spostiamo, meglio è. Una vera sovversione dei valori.
Le epidemie sono il risultato di uno stile di vita che nessuno aveva mai messo in dubbio: la moltiplicazione degli esseri viventi e dell’economia, l’attivismo, l’intrapresa, l’incontro, il contatto, il continuo spostamento, il guardare sempre lontano anziché vicino, il guardare al di fuori anziché dentro. In fondo è il mondo dell’espansione che è stato messo in crisi.
Già lo avevamo capito dalla crisi ambientale, dove ci siamo accorti che stiamo distruggendo il mondo su cui viviamo. E ora arriva la reazione della natura che non perdona certi errori. Ed eccoci costretti a fermarci.
Come nelle esistenze individuali basta un attimo per cambiarci la vita, così nella dimensione sociale basta un microscopico virus a farci rivedere i nostri valori.
Abbiamo sbagliato, ci siamo mossi troppo, abbiamo perso il senso del non fare, del meditare, dell’isolamento. Questo virus è la risposta della natura. Ciò che non faremo con le buone, lo faremo con le cattive.
Quando non succede niente, è la cosa migliore. Quando non facciamo niente, possiamo risanarci. Non avevamo capito che noi stessi ci siamo trasformati in un virus distruttore della Terra.

sabato 7 marzo 2020

Il teatro delle ombre


“La televisione ha ucciso la realtà” diceva Jean Baudrillard e in un certo senso è vero. Noi non abbiamo più un contatto diretto con tante cose, ma un rapporto mediato dai mass media, i quali potrebbero inventarsi guerre o sbarchi sul qualche pianeta facendoci credere che siano veri.
Ma non si tratta di un fenomeno nato con la modernità dei dispositivi elettronici. Da sempre, la mente stessa ha ucciso la realtà, perché ci dà solo interpretazioni e rappresentazioni. Si pone dunque il problema: a chi si può credere? Pensate che già 2500 anni fa, il Buddha si era posto il problema e aveva consigliato di non credere alle autorità, ai testi religiosi, alle apparenze, ai maestri e perfino alla logica e all’inferenza, ma di verificare tutto di persona, in base alla propria esperienza.
Il problema però è che anche la nostra esperienza è condizionata e del tutto soggettiva. Quindi non possiamo credere neppure a noi stessi.
Sì, il mondo è davvero una favola, così come aveva fatto notare Nietzsche, oppure è un’apparizione, una fantasia, un sogno, una farsa, un film… scegliete voi.
E noi che cosa siamo? A nostra volta siamo ombre o copie senza consistenza, ma piene di pretese, che non si rendono conto che il mondo in cui vivono è una semplice creazione della loro stessa coscienza.
Solo superando questa coscienza torneremmo a recuperare l’originale.

Come conoscere


Che ogni conoscenza sia una rappresentazione è ovvio, visto che tutto deve essere interpretato da una mente che ha determinati filtri e regole
Che cos’è il conoscere se non una concettualizzazione e una oggettivazione che stravolge e interpreta ogni dato. In tal senso significa far affiorare e apparire qualcosa, qualcosa che diventa subito un oggetto non oggettivo contrapposto a un soggetto.
Questo è appunto il processo creativo dualistico operato dalla coscienza stessa.
Ma, allora, la vera conoscenza, quella che esce dalle rappresentazioni e dalla trappola dei contrari, dovrebbe essere un non-conoscere; non qualcosa processato dalla mente, ma un escludere il processamento mentale.
Purtroppo questa operazione è molto difficile, perché la  mente dovrebbe escludere se stessa. E nei casi in cui ciò accade spontaneamente, come per esempio nel sonno profondo, viene meno la coscienza stessa.
Insomma la vera conoscenza sta al di là del mondo creato dalla mente cosciente. Quando non sappiamo neppure di esistere, siamo nella realtà originale.

venerdì 6 marzo 2020

Oltre la coscienza


Ad un certo punto della vita, ci viene detto che siamo nati in un certo giorno e in un certo anno, che abbiamo determinati genitori, che abbiamo un nome e un corpo e che siamo degli individui distinti. Fino ad una certa età, non sapevamo nulla di tutto ciò, non ne eravamo coscienti. C’eravamo ma non sapevamo.
Però nessuno ha scelto di nascere; e, spesso, non si decide neppure consapevolmente di concepire. Tante cose avvengono prima che nasca una nostra coscienza e la sensazione di essere un io. E quindi noi siamo il frutto di un lungo processo prima naturale e poi sociale.
Questo per dire quanto sia artefatta la nostra identità, che ha bisogno di molti interventi e di molti apporti e in realtà continua a riformarsi per tutta la vita. Il corpo ci dà per primo una certa identità. Ma poi si aggiungono le identità dateci dai genitori, dalla famiglia, dalla società in cui cresciamo e dai tanti avvenimenti che viviamo.
Tutto ciò ci convince di essere quella determinata persona e non un’altra. Così, a poco a poco, si forma l’io, si forma la mente e si forma la coscienza. E siamo definiti, intrappolati. Siamo quelli e non possiamo essere altri.
Quando ci pensiamo, noi sappiamo di essere cambiati nel tempo, ma sappiamo anche di essere sempre gli stessi. Una cosa rimane inalterata: il sapere di essere.
Ma ci sono dei momenti in cui tutto questo scompare. Per esempio, quando ci troviamo nel sonno profondo, senza sogni. In quel periodo perdiamo ogni coscienza e ogni identità. Ritorniamo a essere quelli che eravamo prima di nascere e che presumibilmente saremo anche dopo essere morti.
Viene a mancare l’autocoscienza e il senso della presenza. Ma non è detto che sia solo una perdita – può anche essere una liberazione. Al di là della coscienza e dell’io condizionati.

giovedì 5 marzo 2020

La vita come un film


L’esistenza, con il suo io che si agita, va considerata una specie di film, il che significa che è qualcosa di artefatto, di sostanzialmente falso, una fiction (cioè una finzione). E il regista-sceneggiatore è proprio la mente cosciente, la quale, dopo essersi inventata la trama e i personaggi, li prende per veri.
Per prima cosa, dunque, bisogna accettare questo statuto di artificialità e di inconsistenza. Ma, poiché la mente è a sua volta un concetto, un’apparenza, un’ombra, non può cogliere il soggetto reale, il noumeno. Per farlo, dovrebbe togliersi di mezzo. Le risposte di un’ombra non possono che essere altre ombre.
Di concetto in concetto, non si esce dal mondo della fantasia e dei personaggi inventati. La mente non può trovare la realtà. Solo quando cessa il suo potere inventivo, proiettivo e falsificante, si entra in una dimensione nuova, dove non c’è più nessuno che si risvegli o si illumini, dove non c’è più una coscienza condizionata, né un pensare, né un concettualizzare, né un oggettivare.
Nella tragicommedia dell’esistenza, i personaggi non possono trovare l’autore, perché lo falsificherebbero subito.
L’autore può apparire solo quando gli attori smettono di stare in scena, di recitare e di cercare. Solo quando la mente si fa silenziosa e vuota, si forma lo spazio per fare emergere il reale. Sparisce il personaggio e compare non tanto il regista, ma ciò che sta prima - il soggetto originale nel suo duplice significato.

mercoledì 4 marzo 2020

Il Grande Gioco


Illusi come siamo, crediamo di essere gli autori delle nostre azioni e del nostro destino, crediamo di compiere scelte libere e consapevoli. Ma come può scegliere uno che non ha scelto neanche di nascere? Quale sarebbe il soggetto che ha deciso?
La verità è che siamo semplicemente il frutto di un accoppiamento altrui (da cui il dualismo della nostra natura e della nostra mente) e di una trama che non è certo stata oggetto di una nostra scelta, ma decisa da una volontà generale che tesse tutti i fili, li annoda e li scioglie Così noi siamo più oggetti che soggetti. Crediamo di compiere scelte, ma le scelte sono già condizionate dal Grande Gioco.
È solo all’interno di questo Grande Gioco, attivatosi spontaneamente e autonomamente, che possiamo compiere le nostre piccole e insignificanti “scelte”.
Ma chi è che pre-sceglie per noi? Non può essere un Dio esterno, ma la totalità, l’insieme del Gioco.
Tutto è apparenza, sogno, teatro – un film che viene proiettato su uno schermo vuoto, ossia l’universo stesso con tutti i suoi pianeti, i soli, le stelle, le galassie, i buchi neri e gli esseri viventi. Qui ogni vita mangia le altre ed è a sua vola cibo – quale Dio avrebbe potuto creare un meccanismo così feroce e folle?
È chiaro che tutto si è fatto da solo, in qualche modo, confusamente e interdipendentemente. È come un getto di fuoco che esce di colpo dal sole o come la nascita del Big Bang. È una proiezione, un’oggettivazione che fa apparire la materia, la coscienza e l’intero universo.
Ma la coscienza stessa è precaria e temporanea. E, quando va a riposo, come nel sonno profondo o nella morte, fa scomparire l’intero Gioco.