Meditare è essere il più possibile consapevoli del proprio
esserci. “Io sono qui e ora. Io sono consapevole di essere e di essere
cosciente.” Se non avessimo questa coscienza, non esiteremmo e non esisterebbe
il nostro mondo. Dunque la coscienza viene prima e il mondo (con noi stessi)
viene dopo. In tal senso il mondo è una nostra proiezione. La coscienza è il
nostro unico strumento.
Ma la nostra coscienza che all’inizio è gioia di essere si
trasforma presto in una infelicità di essere. Sappiamo infatti che dobbiamo
morire. Per che cosa lottiamo? Per che cosa ci arrabattiamo ogni giorno? Per
invecchiare e sparire per sempre? Non è una bella prospettiva. È un’ombra
terribile che ci oscura ogni luce.
D’altra parte l’uomo si sente gettato nel mondo. Non ha scelto
nulla, non è stato interpellato da nessuno, non dispone di se stesso se non in
minima parte.
Sarebbe una situazione disperante se non avessimo quel nostro strumento
– la consapevolezza – che può essere focalizzata sulla percezione primaria dell’
“io sono”, in modo da capire e sperimentare alcune verità.
La prima è che noi ci identifichiamo con il nostro corpo e
pensiamo che, una volta morto quello, muoia tutto. Ma chi è consapevole di
esserci e di dover morire? È una coscienza che non è affatto unitaria – è divisa
tra soggetto e oggetto, tra chi conosce e chi è conosciuto, tra spirito e
materia…
Nella pratica meditativa, è dunque necessario fare uno sforzo di riunificazione
sospendendo tutte queste distinzioni e svuotando la mente in modo da arrivare a quella intuizione
del Sé che non si identifica solo con il corpo e che non è mai nato né mai morto. Ci vuole un’esperienza, non una
filosofia o una fede.
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