Il corpo muore, la
mente muore, la coscienza muore. Se ci identifichiamo con qualcuna di queste
cose, prima o poi siamo morti. Ma ciò da cui escono queste cose non muore.
Questo sottofondo non è materiale, non è mentale, non è neppure cosciente.
D’altronde tutte queste cose sono connotate da insostanzialità, decadenza e
sofferenza.
Ciò da cui emergiamo,
il nostro vero sé, la nostra vera natura, è al di là tanto dell’essere quanto
dal non essere, non è nato e non è morto, non è né felice né infelice, non è né
buono né cattivo. Da esso emergono il corpo, la mente, la coscienza e il mondo
intero - e tutto il caos e la sofferenza.
Poiché non nasce, non
muore: è la coscienza che ci fa credere di vivere e di morire. Ma, al di fuori
della coscienza, non c’è né nascere né morire. È proprio un’altra dimensione.
L’errore consiste nel
voler conservare la coscienza, con tutte le sue divisioni. Ma, se ci fai caso,
le tue migliori esperienze (sonno profondo, samadhi,
orgasmo, ecc.) sono prodotte da uno stato di non coscienza, di non razionalità,
di non presenza.
Nascere significa
assumere il senso di essere, con le sue restrizioni. Ma ciò che è eterno non ha
il senso di essere.
Analogamente, la morte,
per noi, coincide con la scomparsa del senso di essere. Ma è la morte di un’effimera
individualità, non della Fonte da cui proviene.
Quando scompaiono il
senso dell’essere, la coscienza con le sue distinzioni e il dualismo, c’è un
profondo appagamento, e quindi non c’è più bisogno di felicità.
Se mediti, scopri che l’esistenza
non vale i dolori che porta con sé e cerchi lo stato non-duale, al di là anche
della coscienza individuale. Allora la morte non ti sembra una disfatta, ma una
liberazione. Se sei il tutto non provi più paura, non sei insoddisfatto e non
hai più bisogno di cercare il tuo completamento.
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